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Critici soli, recensori nudi

Della fine della critica letteraria è necessario parlarne. Perché tra i recenti commiati ad Harold Bloom e a George Steiner, tutti salutano il personaggio ma pochi il contributo critico (o anti-critico). Che la critica sia agli sgoccioli è ormai un dato di fatto, svanita senza clamori e funerali se non fosse per un breve saggio di Giulio Ferroni, docente e critico letterario, edito nella collana Astrolabio di Salerno Editrice, La solitudine del critico.

La colpa della prematura scomparsa della critica, scrive garbatamente Ferroni, è l’ipertelia, cioè l’eccessiva abbondanza di input, la consumazione vorace, l’ipertrofia della narrazione. “Garbatamente”, sottolineo, perché non c’è esplicita avversione – come ultimamente avviene – contro quello che oggi cerca di sostituire una specie di approccio critico ai libri, o contro il bookstagramming (si usa al gerundio? Esiste?).

La digitalizzazione ha affossato i modelli umanistici classici, senza darci in cambio un modo alternativo che possa coesistere con la velocità e l’ubiquità di cui abbiamo bisogno. Forse perché un’alternativa non c’è.

L’ipertelia, comunque, è un po’ una caratteristica comune a tutte le nuove tendenze. Dall’unboxing delle instagrammer, fino ai blog, dalla menzione sui siti aggregatori di nuove uscite alla recensione sui giornali. È tutto dominato dalla fretta. Tutto tranne il piccolo vademecum di Ferroni che, con quella sottile ironia che tutti i suoi ex studenti gli ricordano, passa in rassegna quello che è stato della critica letteraria negli ultimi anni e quello che (non) sarà. 

Concludendo in modo provocatorio che se la poesia si definisce come ciò che non abbiamo, la critica no, la critica ha bisogno di tempo, spazio, modo, parole, opere.

Il tempo di leggere in modo approfondito, quello che è nel testo e quello che è fuori dal testo (il con-testo, non a caso), attività possibile anche oggi, e anche senza essere andati a scuola dagli strutturalisti. Ma anche leggere lo spazio, campo d’azione della geocritica che studia come il “dove” con i suoi centri e le sue periferie possano influenzare il “come”, l’ampiezza di raggio della scrittura. Il modo, e cioè come legge oggi il gruppo di chi legge davvero. In che luce vede il bisogno di narrare: fa capolino nel saggio la biopoetica, che lega a doppio filo la narrazione con le neuroscienze aprendo grandiose prospettive –  se solo si volessero cogliere – all’interpretazione letteraria.

Per far questo, neanche a dirlo, non basta comunicare che un libro è in libreria, o fotografarne la copertina. E non basta nemmeno ripassare le correnti letterarie del ‘900, che comunque rimane un buon esercizio e il riassunto che ne fa Ferroni è un ennesimo regalo agli studenti, un buon aiuto agli interessati. Per fare della critica vera bisogna cercare in quel microcosmo a metà tra “chiusura specialistica ed espansione tuttologica” restituendo una specificità alla letteratura. È lì che si affacciano la linguistica, i cultural studies, le neuroscienze, per l’appunto a indicare una strada. E più di tutti, quella disciplina che di recente purtroppo studia la distruzione, l’ecologia. Dal momento che il destino del pianeta e quello della critica sono tristemente simili, potrebbero essere altrettanto simili i rimedi: un consumo culturale slow, un po’ come quello che va tanto col cibo. Contro l’eccesso, la quantità, la velocità che disturbano (nullificano, per citare Ferroni) l’esperienza. 

In questo tempo di bombardamento di informazioni, in un secolo che si prospetta lungo ma di memoria breve avremmo avuto bisogno di una critica della crisi e invece ci è toccata una crisi della critica, e non saper leggere davvero, non avere una linea guida (nella cerchia universitaria e oltre) con una mole di libri in uscita che solo in Italia supera i 50mila titoli l’anno, è davvero un peccato.

Il problema è più sentito di quanto si creda e non solo in Italia ma anche in altri paesi e ambienti – non a caso – accademici. Phillipa Cong, professore associato e sociologa ha pubblicato da poco Inside the Critics’ Circle. Book reviewing in Uncertain Times, che riprende – in modo meno garbato e più sociologico – il tema della scomparsa della critica, nel suo caso giornalistica, non accademica, macchiettando un buffo ambientino di recensori che si sentono prima di tutto scrittori e che sanno per certo che una loro stroncatura oggi sarà una stroncatura ai loro danni domani, di giornalisti che tendono ad essere gentili con tutti e del ruolo marginale e sottopagato del critico. Insomma sembra che da quelle parti – ma non solo – un recensore del quale si scoprono i trucchi sia nudo, o poco credibile. 

Fagocitata dalla superproduzione di contenuti, la critica muore di freddo ed è sola. Un po’ come il critico che sa che per esserlo deve fare tutte quelle cose che oggi non vanno più. Fermarsi invece di correre, leggere invece di scrivere, ascoltare invece di parlare e studiare così tanto da inserirsi dove deve stare: tra l’intenzione e l’atto dell’opera letteraria, scrive Ferroni, nel limbo tra la parola che tende al significato e la cosa narrata, giudicandone lo sforzo con lucidità.

*Angela Galloro, giornalista pubblicista