Come un congedo, Antonio Filippetti libera l’ombra della poesia
Fondatore del progetto “Liberi in poesia” che si è proposto fin dall’inizio di “far circolare l’animus creativo”, di “contrastare il livellamento delle coscienze”, “confrontare il libero pensiero” e “sostenere l’originalità dell’intelligenza” con eventi e pubblicazioni, Antonio Filippetti, scrittore e critico letterario, mette in campo una nuova proposta culturale intima e personalissima, non per raccontare la creatività ma per viverla dentro di sé. In un incontro di fine settembre nella sede dell’Istituto per gli studi filosofici a palazzo Serra di Cassano, ha offerto un reading poetico della sua silloge “Come un congedo”, edita dall’Istituto Culturale del Mezzogiorno, interpretata da Adriana Carli e Lucia Stefanelli Cervelli, arricchita dalla prefazione del professor Carlo di Lieto. Il volumetto ha la particolarità di essere a tiratura limitata, numerato e fuori commercio, affidato per la grafica a un intellettuale dell’arte della stampa del calibro di Salvatore Oppido che ha impostato l’impaginazione in modo che i componimenti, attraverso un segno, siano collegati tra loro come un lungo pensiero, e ha introdotto “l’ombra della poesia”, fogli dal contenuto identico ma in negativo e in positivo, simili a una galleria di specchi che rimandano a qualcosa d’invisibile, al doppio dell’anima.
Un libro che supera le logiche editoriali e che, puntando alla riflessione poetica, propone la poesia come sentimento e non come genere. I testi sono brevi, fatti di vocaboli semplici dove ogni parola, sottolinea il saggista Bruno Pezzella, ha un valore preciso, una propria etica. La semplicità dei versi ha un effetto evocativo, non in senso didascalico bensì percettivo e sensoriale. Colpisce l’alternarsi di tensione e leggerezza, di compattezza dell’adesso e cosmica dissoluzione che crea assuefazione, tanto che occorre tornarci più e più volte. Lo stile è chiaro, la poetica è lineare, senza preziosismi sintattici, il linguaggio non è elitario. L’intento è di raggiungere un vasto numero di lettori e soprattutto la loro coscienza. Antonio Filippetti mette insieme la logica, ovvero la scelta dei vocaboli, con le emozioni, così che la parola trascende il significato storico e filologico per arricchirsi con i sentimenti dell’inconscio. Tra le pagine si ascolta una voce intima che sembra provenire dall’altro lato del tempo e dello spazio e, invece, ci restituisce, tra l’archivio dei ricordi, il battito della vita che scorre.
Vita e poesia sono indissolubilmente legate, e tradotte in versi, in questa forma amara e disillusa, sentenziosa e sorretta da un’intensa moralità, di ascendenza montaliana, creano eleganti cammei che mettono nero su bianco il vissuto. Talvolta le liriche straripano quasi in una prosa intimistica che si scaglia nella banalità della vita reale, ma non resta inerte, bensì la trascende, la sublima, generando uno stile inedito, libera espressione quasi di un “flusso di coscienza”: “E siamo giunti alla svolta/all’ultima curva/la più pericolosa/che avanza sull’ignoto./Ma ora più s’insinua /il lamento per ciò che è stato/e vorrebbe ancora essere/testimone di verità.”
Un neo crepuscolarismo esistenziale tessuto di parole comuni e gradevoli effetti ritmici in cui la meditazione morale dà luogo a una contemplazione sulla condizione umana, sulla forza disgregatrice del tempo, sull’angoscia dell’esistenza che passa. Ci sono le opportunità passate, l’amore, gli incontri, gli avvenimenti, le emozioni, ed è compito dello scrittore cogliere questi attimi e fissarli con misteriosi fermagli: “E’ forte la nostalgia/del tempo che non ritorna/di tutte le perdute occasioni./Ma più ancora brucia/la nostalgia di quel viaggio/che non si potrà più compiere.”
Il titolo sembra alludere a un congedo letterario e umano, in realtà il complemento di tempo, se da un lato introduce a un bilancio, dall’altro sottintende a un’indefinibile, perpetua ricerca di un senso filosofico: “Quando sarà tutto finito/sotto un cielo privo di luce/ci chiederemo dove siamo stati/o ce ne andremo forse ancora/in cerca del girasole/”impazzito di luce.”/Altrove si dipana/un’altra vita:/sfugge il senso a chi la vive.”
Il poeta e l’uomo ondeggiano tra un ripiegamento introspettivo, un perturbante disincanto che, come la risacca allontana e riporta indietro, oscilla tra la constatazione del “male vivere”, e il desiderio vano, ma sempre risorgente, del suo superamento, talvolta anche con un recupero delle suggestioni ironiche. Ecco che la poetica esistenziale si apre al mondo e ritrova nella freddezza cristallina, un che di radioso, forse perché filigranato da barlumi di speranza. Una poesia composta di strano dolore che non teme di dichiararsi profondamente umana, che piange e, al tempo stesso, continua a porsi domande, che non spegnerà “l’ultima candela” sugli scampoli di luce.
Non un congedo, dunque, quello di Antonio Filippetti, ma una provocazione, in sintonia con la coerenza civile di tanti anni di scrittura e con un imperativo mai rinnegato: una creatività sempre rivolta all’intimo, che nutra la cifra dell’umano: “L’immaginazione è il migliore dei mondi possibili?/Nell’incerto presente/ravviva la speranza,/l’attesa premurosa…”
*Fiorella Franchini, giornalista