Cielo e terra, piedi e Madonne dall’Ottocento a Tarantino (II parte)
Simbolo femminile di particolare sensualità, il piede compare come elemento fondamentale di talune iconografie, come quella della femme fatale, diffusa tra fine Ottocento e inizio Novecento; ciò soprattutto per effetto del Simbolismo e dell’Estetismo, che si concentrano particolarmente sulla raffigurazione di soggetti femminili di estrema bellezza e dal fascino talvolta pericoloso. Queste esperienze caratterizzano pure il lavoro di Gustav Klimt (1862-1918), che ne Il bacio (1907-1908) mostra una coppia di amanti, resa quasi astratta dal predominante decorativismo, in cui solo alcuni elementi sono riconoscibili: si tratta del volto della figura femminile, delle mani e, appunto, dei piedi della donna. Legati alla terra e perciò alla materia, essi risultano essere la parte più concreta e “bassa” del corpo umano, ancorati a tutto ciò che è sensibile e reale. E, in effetti, passionale e sensuale ci appare questo bacio tra due innamorati, che fa quasi perdere i sensi alla donna, rappresentata non a caso a occhi chiusi, tanto è immersa nel godimento del momento.
Posta su un prato fiorito che isola lei e l’amante dal contesto circostante, la giovane suggerisce un connubio – quello del rapporto tra figura umana e Natura – caratteristico dell’Ottocento, anche se qui reinterpretato in chiave decorativa e simbolica. Già gli Impressionisti avevano mostrato un certo interesse per la raffigurazione di soggetti femminili colti in pose e atteggiamenti “normali”, quasi banali, come asciugarsi i piedi dopo il bagno sulle rive di un torrente o di un lago. Il motivo viene trattato, ad esempio, da Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) che, in diverse occasioni, rappresenta donne nude o seminude, “spiate” dall’artista mentre compiono la quotidiana toilette all’interno della loro abitazione o anche inserite in sereni paesaggi verdeggianti.
Tuttavia, bisognerà attendere molto tempo prima che i piedi vengano sdoganati – diventando veri e propri protagonisti – grazie a performer come Vanessa Beecroft (1969), nota per le sue fotografie di ragazze generalmente seminude, a cui l’artista fa indossare parrucche, collant, tacchi alti o altri indumenti per poi immortalarle in composizioni sempre diverse. Nell’allestimento di tali performances i particolari, come è facile intuire, giocano un ruolo molto importante e, tra questi, le calzature fatte indossare alle donne (che talvolta appaiono pure a piedi nudi) sono assolutamente essenziali; si tratta di un esplicito richiamo al mondo della moda presente in molti lavori della Beecroft, che – non a caso – si è formata in Scenografia all’Accademia di Brera di Milano. Ma gli alti tacchi fatti portare alle modelle contribuiscono anche a sopraelevarle e distanziarle dal pubblico, come si trattasse di piedistalli su cui sono poste delle statue, figure inanimate algide e distanti.
Ma cosa è successo in questo arco di tempo? Cosa ha prodotto un mutamento simile nelle scelte artistiche? Sicuramente lo sviluppo in senso popolare dell’arte, avvenuto di pari passo all’affermazione del cinema, ha contribuito a modificare la percezione della figura femminile, che nel frattempo è andata incontro a un percorso di emancipazione parallelo a quello condotto dalle donne sul piano reale. Più ancora della Pop Art americana è la variante italiana a svolgere un ruolo significativo in tal senso, come dimostrano i decollages del calabrese Mimmo Rotella (1918-2006), che immortalano dive del cinema come Marylin Monroe – rigorosamente su eleganti décolleté – fissate nei manifesti pubblicitari dei film da loro interpretati e perciò trasformate in icone.
Ed è – fatalità – un film con Marylin a dare il titolo a un olio su tela dell’artista americano Jeff Koons (1955), Niagara (2000), in cui una “cascata” di gambe femminili ricorda la celebre attrazione turistica tra USA e Canada, mentre dolcetti e ciambelle glassate, così come il gigantesco cheeseburger al centro, alludono al mondo del consumismo e della società di massa, ben rappresentato pure dalle Niagara Falls dello sfondo, una delle principali attrazioni turistiche statunitensi. Appesi, fluttuanti, esposti come mercanzia di un banco di macelleria, i piedi feticcio entrano nella realtà contemporanea, celebrati e osannati al pari di divinità, oggetto di un «desiderio idolatra» (M. Recalcati, I tabù del mondo) analogo a quello dei beni di consumo nati per vestirli, le scarpe, appunto.
E così, essi ritornano ossessivamente, sovraesposti all’attenzione mediatica nei lavori di Quentin Tarantino (1963), omaggiati in numerosi suoi lavori come in Dal tramonto all’alba (1996), film di Robert Rodriguez (1968), ma sceneggiato dallo stesso Tarantino, in particolare quando la danzatrice Santanico Pandemonium, impersonata da Salma Hayek, si avvicina a Richard Gecko (ancora una volta Tarantino, questa volta nelle vesti di attore), tentandolo e provocandolo; in tale scena si evidenzia tutta la precarietà di una dipendenza dal sogno del feticcio, innalzato a Dio supremo e, perciò, oggetto di una devozione assolutamente profana da parte del sesso maschile.
Ma questo idolo, come ci ricorda l’etimologia latina del termine, alla fine non è altro che qualcosa di finto e artificiale, di facticius per l’appunto, destinato a illudere e ingannare.