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Cielo e terra, piedi e Madonne da Raffaello a Quentin Tarantino

Nell’iconografia mariana dal Medioevo fino al Rinascimento i piedi acquistano un’importanza sempre maggiore, fino a oggi

Il termine greco πούς, ποδός (=piede) presenta la medesima radice del vocabolo che indica il legame (πέδη) e del corrispondente verbo “incatenare” (πεδάω). Che alla base del fascino esercitato nei secoli da questa parte del corpo vi sia la sua stessa essenza, derivante dall’origine etimologica della parola? 

Nell’iconografia mariana che si delinea dal Medioevo fino al Rinascimento i piedi acquistano un’importanza sempre maggiore, assumendo visibilità e significati via via più profondi. Così, nella Madonna Sistina (1513) di Raffaello (1483-1520) Maria avanza verso l’osservatore a piedi nudi, tenendo il bambino “monello” tra le braccia, inquadrata da tende verdi che danno all’opera un carattere teatrale. La resa dei piedi, posti in bella mostra sopra un “pavimento” di nuvole vaporose, rientra in quel processo di umanizzazione del sacro che interessa l’iconografia raffaellesca di Maria e che si perfeziona nel Cinquecento, assumendo tratti di tipo realistico-popolari con Caravaggio. Infatti, con Michelangelo Merisi (1572-1610) questo elemento fisico diventa una costante, suscitando anche scandalo come accade con la Morte della Vergine (1601-1606); qui i piedi gonfi e lividi di Maria, unitamente all’estremo realismo nella resa degli Apostoli, scalzi e calvi, connotano in senso popolare e popolano i personaggi. Per giustificare una simile rappresentazione della Vergine al tempo si disse che Caravaggio aveva scelto come modella Anna Bianchini, una prostituta annegata nel Tevere, tanto la resa del personaggio era umana. In realtà, oggi sembra più plausibile ritenere che Maria, gratia plena, mostri tratti fisici – come pure il ventre rigonfio su cui poggia la mano – tali da esprimere il suo carattere semidivino di madre di Cristo.

Diverso lo stile del capolavoro scultoreo alla Galleria Borghese di Roma, in cui Antonio Canova (1757-1822) ritrae Paolina, sorella di Napoleone, come Venere vincitrice secondo un modello idealizzato di bellezza suprema; in questa visione di «irraggiungibile perfezione» (V. Sgarbi, Dal mito alla favola bella. Da Canaletto a Boldini) i piedi nudi diventano simbolo di elegante sensualità e velato erotismo in linea con l’estetica neoclassica e la sua ricerca di Bello ideale.

Caravaggio, Morte della Vergine (1601-1606). 
Parigi, Museo del Louvre

Bellezza, ma anche devozione e amore. Non a caso la scrittrice Christa Wolf (1929-2011), molto tempo dopo, farà dire alla sua Medea: «Quando sei arrivato, Giasone, tu eri un’ombra scura in una notte stellata, tu eri nella tua forma migliore, hai detto le cose giuste nel modo giusto, hai calmato il mio dolore, di cui non sapevi niente e che io consideravo privo di rimedio.  E come per scaldarli, hai preso i miei piedi nelle tue mani» (C. Wolf, Medea). Infatti, l’iconografia di Medea – la maga protagonista della tragedia di Euripide – costruita dalla fine dell’Ottocento prevede spesso la rappresentazione dei piedi nudi che escono da un lungo vestito, facendo di lei una antica ma moderna femme fatale. Tale ritratto si adatta perfettamente al carattere ideato da Euripide e da chi, dopo di lui, si è cimentato con il personaggio, reinterpretandolo: donna passionale e “terribile”, Medea rappresenta infatti l’archetipo della selvaggia, la straniera indomabile e carnale, che per vendicarsi del tradimento del marito Giasone si renderà colpevole di figlicidio.

In quegli anni il tema della femme fatale si precisa grazie anche alla letteratura, che contribuisce a definire in senso più terreno il motivo. Così ne Il piacere (1889) di Gabriele d’Annunzio (1863-1938) il «piccolo piede» di Elena Muti, donna sensuale e dallo sguardo «voluttuoso», contrasta con il ritratto di Maria Ferres, figura pia, «turris eburnea» (torre d’avorio) dalle reminiscenze mariane. Andrea Sperelli, il protagonista e alter ego di d’Annunzio, è così diviso tra due opposte concezioni di donna, quella angelicata da un lato e quella carnale dall’altro.

Legati alla terra e, perciò alla materia, queste parti del corpo ritornano con una certa insistenza tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come esemplifica pure l’opera di Gustav Klimt (1862-1918), maestro della Secessione viennese. Ne Il bacio (1907-08) la coppia di amanti, resa quasi astratta dal predominante decorativismo, mostra solo alcuni elementi fisici riconoscibili come i volti, le mani e, appunto, i piedi della donna, che connotano in senso passionale e sensuale il bacio tra due innamorati. 

Non più nascosti, nel XX secolo i piedi sono esibiti nei manifesti pubblicitari dalle dive hollywoodiane, contribuendo a definirle come personaggi di bellezza assoluta e proprio per questo lontane e irraggiungibili. Ma è solo con l’iperrealista Domenico Gnoli (1933-1970) che essi, vestiti di décolleté o ballerine, diventano protagonisti a tutti gli effetti delle opere d’arte, alimentando la «fascinazione feticista» contemporanea, tanto diffusa oggigiorno a scapito dei «partner umani» in quanto – a differenza di questi – «hanno la caratteristica di assicurare la loro presenza, di non tradire e di non andarsene mai» (M. Recalcati, I tabù del mondo). Se quelli di Gnoli appaiono per lo più “vestiti”, nudi sono i piedi delle donne di Quentin Tarantino (1963), cui spetta il merito di averli “consacrati” nel cinema grazie ad alcuni primi piani cult come in The grindhouse, pellicola del 2007 tra le meno note del regista, con un cast quasi interamente al femminile, eccezion fatta – ahimè – per la vittima, Kurt Russell, che verrà sacrificata nel finale.

*Valentina Motta, scrittrice