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Gli anni Venti, il Mondo a un bivio

Venti di guerra. Il 2020 si apre con l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani per ordine di Donald Trump, presso l’aeroporto internazionale di Bagdad. In Libia le cronache, già confuse, registrano il coinvolgimento della Turchia di Recep Tayyp Erdogan che si prepara a mobilitare l’esercito turco e manda in avanscoperta i miliziani qaedisti già utilizzati in Siria. Un nuovo protettorato? Di certo i pozzi petroliferi e di gas rappresentano un piatto davvero “succulento” per il 12° presidente della storia della Turchia repubblicana. La trama di questo nuovo anno si colora di guerra e fuoco, l’Australia brucia a causa di una forte ondata di caldo seguita alla primavera più secca di sempre, uno dei più grandi disastri della storia recente del paese. Almeno 480 milioni di animali, secondo la stima dell’Università di Sidney, potrebbero essere morti nello Stato australiano del Nuovo Galles del Sud dall’inizio degli incendi boschivi a settembre, oltre 3,6 milioni di ettari di territorio, un’area più grande del Belgio, sono già andati bruciati, mentre oltre 1.800 case sono state distrutte o danneggiate.

Numeri impressionanti che si sommano a quelli relativi agli incendi in Siberia e in Amazzonia del 2019. Gli appelli di Greta oggi fanno ancora più rumore. 

Il nuovo anno apre gli anni Venti del XXI secolo ed è necessario riavvolgere il nastro del nostro tempo e guardare indietro, guardarci dentro e riflettere sui nostri passi. I trent’anni dalla caduta del Muro ci hanno lasciato una generazione nata e cresciuta nel culto dell’Europa e dell’Erasmus illudendoci, non poco, che il nuovo secolo nato dalla fine delle ideologie novecentesche avrebbe portato, finalmente, la politica a una libertà di espressione e di confronto democratico senza scorie. Una generazione complessivamente più istruita (anche se l’Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di laureati) ma molto sfruttata e precaria, ricca di eccellenze che però lavorano in altri paesi del Mondo, dopo essersi formati in Italia. È come se un’azienda formasse i propri dipendenti per poi “regalarli” belli e pronti a competitors esteri, un “no-sense” ormai endemico. 

Venti anni in cui il “sogno” si è via via scontrato con una nuova realtà che ha visto la fine del “secolo breve” che per lo storico britannico Eric Hobsbawm, nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, è rappresentato dai novant’anni centrali del Novecento (1914-1991) in cui la vita degli uomini si trasformò tanto profondamente quanto rapidamente. Una “società liquida”, come teorizzata dal filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman in Modernità liquida, attraversata da numerose crisi, tragedie e cambiamenti sociali che porterà a quell’”incertezza” tipica degli ultimi decenni. Lo stesso Bauman vivrà appieno il secondo conflitto mondiale, nel 1939 infatti, in seguito dell’invasione nazista in Polonia, è costretto a fuggire nella zona di occupazione sovietica e dopo la fine della guerra si avvicina al pensiero di Antonio Gramsci e del sociologo tedesco Georg Simmel. Zygmunt Bauman quindi, approfondisce la connessione tra la cultura della modernità e totalitarismo, in particolar modo su nazismo e olocausto arrivando poi a concentrare la sua riflessione sul tema della globalizzazione che per il sociologo polacco mina alla base la coesione sociale su scala locale, portando alla creazione di un élite della mobilità in grado di annullare lo spazio, di dare significati allo spazio, e capaci soprattutto di rendere lo spazio significante per sé stessi. Questa situazione è definita da Bauman “guerre spaziali”, le quali rischiano di diventare foriere di pericolose conseguenze a causa della disintegrazione delle reti protettive e ci accorgiamo, con più chiarezza, del ruolo che il tempo, lo spazio – e i mezzi per affrontarli – hanno giocato nel formare prima, poi nel rendere stabili e flessibili, infine nel far crollare le totalità socio – culturali e politiche. 

Facendo poi un confronto tra il periodo della guerra e quello attuale, il sociologo rilevava una differenza sostanziale: allora c’era la speranza di uscire dal tunnel, oggi l’insicurezza sembra non avere fine. Eppure, sebbene constatasse la dissoluzione delle relazioni e la rincorsa di piaceri effimeri, Bauman non era pessimista: il raggiungimento di un nuovo equilibrio avrebbe richiesto molti anni, ma i giovani avrebbero potuto affrontare con successo la sfida di un cambiamento. 

Tornando ad Hobsbawm, rispetto agli eventi che analizza, egli si pone sia nell’ottica dello storico, che vaglia le fonti e analizza i documenti, sia in quella di contemporaneo che ricorda le proprie esperienze, intrecciando tra loro i fili dell’economia, della cultura e della politica, lo scrittore britannico dipinge un quadro a tutto tondo della storia del secolo a partire dal 1914, quando inizia la guerra che distrugge, per sempre, la civiltà ottocentesca. Il “secolo breve” appare nella forma di un “sandwich storico”: fra una “Età della catastrofe” (1914-1945) che assimila le due guerre mondiali e un nuovo momento critico “la frana” che si colloca tra i primi anni Settanta e il 1991, una “età dell’oro”(1945-1973) caratterizzata in Occidente da una straordinaria crescita economica e da una profonda trasformazione sociale.

È partorita tra le due guerre e concepita – in parte – durante il secondo conflitto mondiale un’altra riflessione sulla storia, quella dello storico francese Marc Bloch spinto dalla grave minaccia portata alla civiltà europea dalla guerra.

“Dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?” si chiede Bloch nel giugno del 1940, il giorno dell’ingresso dei tedeschi a Parigi, all’interno di un giardino normanno in cui il suo Stato Maggiore – privo di truppe – si cullava nell’ozio e lui assieme ad altri commilitoni cercava di capire le cause del disastro. 

L’episodio del “giardino normanno” evoca l’atmosfera e il clima entro cui Bloch percepì l’idea di un’Apologia della storia, un libro che non fece mai in tempo a scrivere, cui egli si sentiva particolarmente abilitato dal prolungato esercizio del “mestiere di storico”. Mettere quindi per iscritto ciò che aveva visto con i suoi occhi sul fronte Nord, dal 10 maggio del 1940 in poi: “Scrivere e insegnare la storia, questo è il mio mestiere da circa 

trentaquattr’anni. […] Ho infatti sempre pensato che il primo dovere di uno storico consista – come diceva il mio maestro Pirenne – nell’interessarsi alla vita”.  Se l’esercizio e la pratica del “mestiere di storico” dava la possibilità di esercitare quello di testimone evidentemente – secondo Bloch – la storia a qualcosa serviva, del resto lo storico francese di “guerre e battaglie” ne aveva raccontate ben poche nei suoi libri e, anche queste, tendenzialmente, solo per dimostrare che, vinte o perse, non avevano cambiato nulla. 

Il problema, quindi, dell’utilità della storia non va certamente confuso con quella della sua legittimità, più strettamente intellettuale, Bloch rivendicava anzitutto il valore conoscitivo della ricerca storica, valore spesso di inferiorità poiché lo storico si trova – per definizione – nell’assoluta impossibilità di osservare pienamente i fatti che studia. 

E quindi? Abbiamo visto salire al potere Tony Blair in un Regno Unito completamente lontano da quello appena uscito dall’Unione Europea, così come abbiamo attraversato l’11 settembre 2001, quando nulla è stato più come prima e tutto, purtroppo, si è modificato in peggio. In quei giorni confusi e pieni di odio siamo “usciti dalla storia” così come teorizzato da Francis Fukuyama nel suo The End of History and the Last Man. Secondo il politologo di Chicago il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si starebbe aprendo una fase finale di conclusione della storia in quanto tale. 

Il nuovo millennio ci ha portati le bombe sui treni di Madrid e alla stazione di Atocha – che oggi è più verde che mai attraverso un’operazione di restyling ecologico strabiliante – gli attentati di Londra e l’attacco ceceno alla scuola di Beslan, durante le guerre in Afghanistan e in Iraq, la scoperta degli abusi americani nel carcere di Abu Ghraib. Enfin, i dipendenti della Lehman Brothers con gli scatoloni in mano, emblema di un’epoca di falso benessere in quel momento deceduta per sempre. 

Le crisi europee e dell’Unione sempre ad un passo da rotture e capovolgimenti inattesi, la Grecia in ginocchio, le strade di Atene trasformate in enormi piazze della rabbia e della disperazione, la vittoria effimera di Alexis Tsipras, tanto carica di speranze all’inizio quanto triste nel suo epilogo tra le ombre, il miracolo di un risveglio civile condotto da Ada Colau nella battaglia contro gli sfratti dalle abitazioni, alla guida e alla rielezione in una città nell’occhio del ciclone come Barcellona. La Francia sconquassata e capovolta da un forte scontro interno, fatto di bombe, rivendicazioni sociali più disparate e difficili convivenze, Parigi non si è ancora ripresa dal Bataclan. 

Quindi l’America di Trump, i sovranisti che si prendono la scena per spostare le lancette della paura verso l’altro, il diverso, nascondendo sotto la sabbia i problemi “veri” dei paesi occidentali: l’invecchiamento della popolazione – l’Italia tra i paesi con la minor natalità in Europa – il mondo del lavoro che cambia, il futuro delle giovani generazioni, la green economy, uno spazio condiviso da proteggere e tutelare. 

Siamo tutti in marcia verso un futuro di cui non conosciamo i contorni, una storia tutta da scrivere che ci proponiamo di redigere insieme, senza più barriere (speriamo), ne blocchi contrapposti. Resterà quella fulgida sensazione di vuoto fatta di occasioni perdute come accade nei decenni di “passaggio”, con la certezza che gli anni Venti sapranno sbandierare una loro forte identità – ci auguriamo positiva – come quelli del XIX secolo che incubarono i moti risorgimentali cambiando il panorama politico occidentale nei decenni successivi. Nuovi moti di una possibile e doverosa riscossa collettiva.

Il nostro giornale punterà a raccontare la società del prossimo futuro, quella che ci accingiamo a vivere, con la consapevolezza che la cultura e la bellezza possano salvarci sempre e comunque, facendoci cogliere la parte sana e positiva delle nostre interazioni umane.

Con questa premessa e con la speranza che il nuovo decennio sia quello “giusto” mi accingo a terminare il mio primo editoriale di Verbum Press, con tanta voglia di imparare e di affrontare una nuova avventura, insieme!

*Roberto Sciarrone, dottore di ricerca in Storia dell’Europa, Sapienza Università di Roma.