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Che nessuno sia lasciato indietro

La sostenibilità sociale e la sua “centralità” nella società contemporanea

Quando si parla di sostenibilità, il pensiero corre veloce a quella ambientale ed economica, l’attenzione tende a concentrarsi principalmente su queste due dimensioni dello sviluppo sostenibile, tuttavia non si può dimenticare un terzo pilastro ugualmente fondamentale e strettamente interconnesso a queste due declinazioni, ovvero lo sostenibilità sociale.

Già nel 1987, Gro Harlem Brundtland, Presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo, presenta il rapporto “Our common future” in cui viene fornita una definizione di sviluppo sostenibile ampia: “Yet in the end, sustainable development is not a fixed state of harmony, but rather a process of change in which the exploitation of resources, the direction of investments, the orientation of technological development, and institutional change are made consistent with future as well as present needs. We do not pretend that the process is easy or straightforward. Painful choices have to be made.[1].

Rispetto allo sviluppo tradizionale, lo sviluppo sostenibile si occupa, come già accennato, di tre dimensioni, tanto da essere associato alla regola delle tre E: Economics, Environment, Equity.

E proprio a questi tre pilastri attengono i 17 obiettivi individuati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU ed entrata in vigore il primo gennaio 2016: il pilastro sociale, il pilastro economico, il pilastro ambientale.

Risulta evidente che per raggiungere un benessere e una sostenibilità effettivi e completi, i tre pilastri debbano svilupparsi in modo armonioso. L’interconnessione fra i tre è pertanto la caratteristica fondamentale del sistema sostenibile.

La sostenibilità sociale, dunque, appare di centrale importanza esattamente quanto quella ambientale e quella economica, in un contesto in cui ci troviamo a fare i conti con evidenti disuguaglianze fra le generazioni, disparità di genere, discriminazioni, squilibri demografici, digital divide, disparità territoriali, distribuzioni della ricchezza sbilanciate e sacche di povertà sempre più diffuse e stratificate, soprattutto con le durissime prove cui il mondo è stato sottoposto dalla pandemia, che ancora fa sentire il suo peso.

Squilibri di questo tipo “[…] non costituiscono un fardello solo per gli individui che ne sono afflitti, ma concorrono a formare una zavorra

per l’intero sistema economico. Rimuoverli significherebbe allora non più appianare delle  disuguaglianze, in una logica perequativa, bensì contribuire a creare le premesse per lo sviluppo, in vista di un orizzonte di più lungo termine. Ecco quindi farsi strada il concetto di ‘sostenibilità sociale’: una prospettiva di crescita in cui gli elementi sociali sono tenuti nel debito conto al pari di quelli ambientali ed economici, per concorrere a formare il più ampio quadro di ‘sviluppo sostenibile’.[2].

Laura La Posta attribuisce addirittura un primato di strategicità alla sostenibilità sociale, nella sua definizione di capacità di assicurare il benessere umano (inteso in termini di salute, istruzione, sicurezza, giustizia, partecipazione e democrazia) e una sua equa distribuzione per classi e genere. “Perché in presenza di inique diseguaglianze e in assenza di coesione sociale non possono realizzarsi la sostenibilità economica e quella ambientale.[3].

Non si può peraltro ignorare il fatto che la trasformazione del mercato del lavoro abbia generato un’ulteriore frammentazione sociale: i cambiamenti legati alla globalizzazione economica e alla rivoluzione digitale hanno condotto a un repentino adattamento e realizzato in generale il passaggio da una società salariale a una società prestazionale.

Le imprese si sono dovute adeguare all’era del cosiddetto capitalismo informazionale, alla crescente domanda di prodotti altamente personalizzati, a un mercato esigente, frammentato e sovraffollato, rispondendo con assetti del lavoro più flessibili e orientati, anche sul piano della localizzazione, all’insediamento di medio termine e all’eventuale reversibilità. “Si configura perciò un ambiente ‘liquido’ in cui le imprese cercano di massimizzare il più possibile il vantaggio competitivo derivante dalla proiezione globale dell’economia […] e in particolare dalla sua funzione di gateway per i flussi internazionali,con ripercussioni particolarmente evidenti sul piano della struttura occupazionale e delle professioni.”[4].

In un contesto così mutevole, per affrontare impieghi precari e transizioni lavorative più frequenti, occorrono giocoforza competenze differenti. “Nonostante ciò, l’orientamento specialistico per coloro che non hanno qualifiche viene praticato in maniera poco sistematica e sembra trascurato l’aspetto di democratizzazione e riduzione delle disuguaglianze sociali che esso potrebbe incentivare se coniugato con la crescente richiesta di istruzione e alfabetizzazione.[5].

Senza contare, poi, che in Italia l’acquisizione di competenze formative è strettamente legata all’origine sociale e solo una piccola percentuale degli studenti più svantaggiati dal punto di vista socio-economico riesce ad entrare nel novero dei più preparati. La disuguaglianza nei risultati può essere chiaramente dovuta anche a differenze prettamente personali in termini di interessi, propensioni e talento, tuttavia lo stato socio-economico riveste un peso rilevante, che va poi ad influire sull’intera esistenza lavorativa e conseguentemente sulla vita degli individui nel suo complesso.

Infatti “[…] da un lato si collocano […] coloro che potremmo definire gli ‘integrati’, ossia le risorse high-skilled impiegate nei settori caratteristici dell’economia globale e contrassegnati da alta innovazione (finanza, ict, economia della creatività e della conoscenza); dall’altra parte troviamo invece gruppi di lavoratori low-skilled dediti a ruoli complementari o di servizio contraddistinti da bassa qualificazione e forte temporaneità, tipicamente mal retribuiti e poco tutelati rispetto ai rischi connessi alla propria condizione occupazionale. Potremmo utilizzare, per questa seconda tipologia di lavoratori, l’etichetta di ‘reclutati’. Si tratta per la maggior parte di addetti ai settori più tradizionali del terziario (come la ristorazione, le imprese di pulizia, la logistica distributiva), di operai dell’edilizia e di persone impiegate in attività domestiche, soprattutto con funzioni di caregiving, e nelle quali è più forte la presenza della componente immigrata.[6].

Mutamenti di tale portata implicano naturalmente che anche il sistema di welfare debba mutare e adattarsi per poter rispondere in maniera efficace alle esigenze dei cittadini.

Come sintetizza l’economista Stefano Zamagni, il nuovo principio organizzativo a cui tendere è quello della sussidiarietà circolare, in cui settore pubblico, business community e mondo della società civile organizzata interagiscono tra loro in modo sistematico sulla base di protocolli che definiscono la priorità di intervento sociale e che individuano le modalità di gestione più efficaci per raggiungere gli obiettivi condivisi. La sinergia fra questi tre vertici è essenziale laddove: l’ente pubblico manca di risorse o di informazioni; il mondo dell’impresa ha le risorse, ma non è in grado di definire da solo strategie comuni; la società civile è la sola a sapere come evitare il paternalismo assistenzialistico.

A fronte di tali discorsi è fondamentale che l’attenzione si concentri anche sui flussi migratori, in quanto evidentemente gli immigrati sono parte integrante del tessuto sociale. Questi ultimi, peraltro, al pari di altri gruppi, come quello dei giovani e delle donne, sono fra le categorie su cui maggiormente si ripercuotono problemi e contraddizioni della transizione post-terziaria dell’economia, soprattutto in un momento come quello attuale, in cui le chiusure imposte dall’emergenza sanitaria hanno creato una situazione di povertà capillarmente diffusa.

In un simile contesto, emerge prepotentemente quella che da decenni è una vera e propria piaga sociale, incompatibile con uno sviluppo sostenibile e che colpisce principalmente gli immigrati: il caporalato. Un fenomeno contro cui esiste una normativa, la quale tuttavia viene ignorata e violata da moltissime aziende che sfruttano il lavoro in nero, soprattutto nell’agricoltura, avvalendosi di braccianti irregolari costretti a un massacrante lavoro nei campi per meno di 5,00 € l’ora, tutto il giorno, impigliati in situazioni che sembrano senza via d’uscita, vittime di un sistema alimentato dalla diffusa povertà e dall’inefficacia dei provvedimenti adottati.

Come spiega Devi Sacchetto, docente di Sociologia del Lavoro dell’Università di Padova, sono spesso le reti etniche a strutturare il sistema di reclutamento, specialmente nell’agricoltura, dove vengono costituite squadre di persone della stessa nazionalità, compreso il caporale stesso, che svolge le stesse attività dei braccianti o in ogni caso li coordina. Fondamentale è portare al lavoro i braccianti e tenerli sotto controllo, tanto che s’instaurano dinamiche tali per cui il bracciante può recarsi a lavorare unicamente tramite il mezzo, a pagamento, messo a sua disposizione e durante il lavoro può acquistare acqua e cibo solo dal caporale.

Il fenomeno riguarda in misura minore i lavoratori italiani, tuttavia esistono reti di caporalato molto vecchie, soprattutto nell’Italia meridionale, e paesi in cui ad essere reclutati sono i disoccupati.

Il problema è che il caporale garantisce un’organizzazione del lavoro molto più efficiente di ogni agenzia o centro per l’impiego, perché riesce a portare blocchi di manodopera e gruppi di lavoratori che soddisfano appieno le esigenze del datore di lavoro […] In Puglia, a Rignano Garganico, per esempio, sono venti anni che partono ogni mattina i furgoncini carichi di migranti che poi vanno a lavorare nelle campagne circostanti […] L’unica cosa che è stata fatta è stata distruggere il loro ghetto, che poi è stato ricostruito qualche centinaia di metri più in là. […] questi quartieri talvolta sono per i migranti dei posti dove risiedere a basso costo, uniti e isolati dal razzismo. […] D’altra parte, i caporali impongono ai braccianti che devono risiedere lì, se vogliono lavorare[7].

L’ex Ministra delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova ha dedicato grande attenzione al tema, riconoscendo l’importanza della lotta al fenomeno del caporalato proprio in un’ottica di sostenibilità sociale e sviluppo sostenibile, tanto da essersi impegnata per l’approvazione del Piano Triennale 2020-2022 per il contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato.

È il consumatore che deve aiutarci a spezzare la catena dello sfruttamento, perché se un prodotto viene venduto sotto il costo di produzione, c’è qualcuno che quel costo lo paga. […] Dobbiamo rafforzare ed esaltare il valore delle imprese alimentari e agricole come laboratori di integrazione quotidiana […] Soprattutto nelle aree interne e rurali, dove l’attività agricola è un presidio fondamentale per il territorio e dove si sperimentano forme reali di integrazione sociale e culturale, non solo lavorativa.”[8].

Il Piano Triennale, approvato dal Tavolo Caporalato il 20 febbraio 2020 e per la cui attuazione sono già stati stanziati oltre 700 milioni di euro, individua sette aree tematiche principali di intervento: prevenzione, vigilanza e repressione del fenomeno del caporalato; filiera produttiva agroalimentare, prezzi dei prodotti agricoli; intermediazione tra domanda e offerta di lavoro; trasporti; alloggi e foresterie temporanee per i lavoratori stagionali; rete del lavoro agricolo di qualità; reinserimento socio-lavorativo delle vittime di sfruttamento lavorativo. Accanto alle sette aree, tre ambiti d’azione trasversali: la predisposizione di un sistema informativo per lo scambio di dati e informazioni; lo sviluppo di un sistema unitario per la protezione e l’assistenza delle vittime; una campagna di comunicazione istituzionale per informare correttamente tutti i soggetti convolti.

Uno sforzo che sembra andare nella direzione giusta e mostra di comprendere i danni che un fenomeno come quello del caporalato produce costantemente non solo sulle sue vittime dirette, ma anche, in senso più ampio, sull’economia del settore.

Un’iniziativa che ribadisce l’importanza di azioni a tutto tondo nell’ottica di uno sviluppo sostenibile, che per essere tale non può permettersi di lasciare indietro nessuno.


[1] Report of the World Commission on Environment and Development: Our Common Future. United Nations 1987

[2] Mozzati, R., Quel che resta dello sviluppo. Questioni di sostenibilità sociale a Milano, “Milano Produttiva 2018”, p. 203

[3] La Posta, L., Sostenibilità sociale chiave dello sviluppo, Il Sole 24 ORE, 2/3/2016

[4] Mozzati, R., Quel che resta dello sviluppo. Questioni di sostenibilità sociale a Milano, “Milano Produttiva 2018”, p.186

[5] Coccimiglio, C., Garista, P., Giustizia sociale, empowerment e sostenibilità. Come l’orientamento può sostenere una coscienza critica nel life-long learning, p. 4, in Form@re – Open Journal per la formazione in rete, vol 19. n. 2

[6] Mozzati, R., Quel che resta dello sviluppo. Questioni di sostenibilità sociale a Milano, “Milano Produttiva 2018”, pp.186-187

[7] Sacchetto, D., da un’intervista rilasciata a Federica D’Auria, 23/09/2019

[8] Bellanova, T., Comunicato stampa 20/02/2020

*Monica Siclari, dottoressa in Comunicazione