Cento anni fa moriva Giovanni Verga, positivista, scettico e fatalista
Ricordo del grande narratore padre dei Malavoglia e di Mastro-don Gesualdo
Giovanni Verga appartiene a quella categoria di autori per cui, essendo così immensi, non risulta agevole parlarne in maniera esaustiva in poco spazio. In ogni modo, con queste pagine, lo vogliamo ricordare e rendergli omaggio nell’occasione dei cento anni dalla sua morte, avvenuta il 27 gennaio del 1922. In quell’anno il fascismo avrebbe preso il potere e avrebbe spazzato via quello che restava dello Stato liberale uscito dal Risorgimento e dall’Unificazione del nostro Paese per imporre un regime totalitario, regime che avrebbe trovato il suo tragico epilogo nella Seconda Guerra Mondiale. La morte di Verga appare quasi emblematica della fine di un’epoca, quella appunto legata al Risorgimento e alla completa unificazione dell’Italia, avvenuta con la Prima Guerra Mondiale.
Nato a Catania nel 1840, Verga è, indubbiamente, il più grande romanziere italiano dopo Alessandro Manzoni e il primo che si possa definire moderno, ovvero come proiettato nel futuro sia per linguaggio che per le tematiche affrontate. Se il primo poeta che possa definirsi moderno e novecentesco è certamente Giovanni Pascoli, per la narrativa lo è Verga. Egli rappresenta un ponte gettato sul Decadentismo, in quanto per certi versi il naturalista Verga anticipa certa sensibilità e anche alcune tematiche che saranno proprie del Decadentismo. Non è un caso che per gli ottanta anni gli fece il discorso per gli auguri quel Pirandello che, nell’esaltare il grande siciliano, gli dice: Voi, che siete il mio maestro… E, si badi, non solo e non tanto perché maestro di realismo narrativo quanto perché in Verga il giovane ma già geniale Pirandello trova una certa sensibilità e certe tematiche che sente sue e che apparterranno alla poetica decadente.
Verga inizia la sua attività letteraria (contro la volontà dei genitori che lo avrebbero voluto avvocato) con romanzi risorgimentali (Amore e patria, I carbonari della montagna e Sulle lagune) per poi proseguirla, una volta tra Firenze e Milano, con opere di tipo romantico, nei quali i protagonisti, in genere, appartengono alla borghesia medio-alta e in cui certi personaggi maschili anticipano quello che nelle opere dei decadenti Tozzi, Svevo e Pirandello sarà l’antieroe per eccellenza, cioè l’inetto alla vita, colui che sente di essere inadeguato alla realtà e che, pertanto, ha con essa un rapporto molto problematico, fino alla nevrosi. Sono quelli che Robert Musil chiamerà l’uomo senza qualità, che non è altro che un individuo che ha preso dolorosamente coscienza che la realtà è quella che è e, pertanto, la subisce e la vive in maniera alienata e consapevole che non potrà mai riconoscersi e identificarsi in essa, tanto da lui è diversa. Si tenga presente che se la sconfitta degli inetti di Svevo e Pirandello è puramente verticale, in quanto riguarda se stessi e la loro psicologia, quella dei vinti di Verga è una sconfitta orizzontale, in quanto investe soprattutto il momento, l’aspetto socio-economico.
Così, Verga scrive più di un romanzo romantico-decadente e ha un buon successo di pubblico: Storia di una Capinera, Eros, Tigre reale, Il marito di Elena, Una peccatrice. Siamo negli anni ‘70 dell’800 e, in Francia, ci sono gli Zola, i De Goncourt e i Maupassant che stanno facendo romanzo alla maniera dei naturalisti, cioè in maniera scientifica: ritraggono la realtà così com’è, anche negli aspetti più bestiali e brutti della vita al fine di dare al lettore un documento, delle tranche de vie nude e crude, senza lasciarsi condizionare dal sentimentalismo e dall’ideologia. Siamo alla teoria del romanzo sperimentale, per cui il romanziere deve operare come fa lo scienziato per poi fornire la fotografia della realtà, dati certi e documentati. Pertanto, i canoni principali del romanzo positivista-naturalista sono essenzialmente tre: oggettività, scientificità e impersonalità dell’opera d’arte. Cosa significa? Significa che lo scrittore deve rappresentare la realtà così com’è e attuare, dunque, il massimo della mimesi, cioè dell’imitazione della realtà; deve fare questo in maniera scientifica, da analista spietato della realtà, che va scomposta e analizzata fino a smascherare, a demistificare e a far emergere tutto il marcio che c’è in essa. Di conseguenza, il romanziere, quando analizza e scrive, deve farlo in maniera impersonale, cioè deve come eclissarsi e l’opera deve sembrare essersi fatta da sé, come spiegherà benissimo lo stesso Verga.
Ebbene, in Francia si sta creando il grande romanzo naturalista che prosegue il filone realista dei Flaubert e dei Balzac. In Italia Verga e Capuana sentono che è venuto il momento di fare come a Parigi: l’incontro tra i due grandi siciliani sarà davvero un incontro felicissimo. Il Capuana (massimo teorico del Verismo) e Verga (il maggior esponente), sul finire degli anni ’70, avviano la svolta verista della letteratura italiana e Verga smetterà di scrivere alla maniera tardo-romantica e inizierà a scrivere alla maniera veristica, cioè secondo i canoni della poetica del Naturalismo. Già nel 1874 era stata pubblicata la novella Nedda, la storia di una raccoglitrice di olive della Sicilia e, nel 1880, la raccolta di novelle Vita dei campi per poi veder venire alla luce, nell’81, il capolavoro I Malavoglia. Opere che, come le successive, non troveranno buona accoglienza nel pubblico borghese abituato ai precedenti romanzi.
I Malavoglia è il primo romanzo di un ciclo, il ciclo dei Vinti, di cui farà parte Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra (di cui scrive solo un capitolo) e i mai scritti L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. Ebbene, la svolta è ormai nei fatti: Verga ha voltato definitivamente pagina e, da uomo benestante dei ceti alti siciliani, ha deciso di dare (paternalisticamente…) voce agli umili, alla povera gente, agli emarginati, ai reietti della società spietata e dominata dalla logica e dall’etica borghese del successo, del profitto e del denaro.
Direbbe il Sapegno che la fortuna di Verga, come quella di Goldoni quasi un secolo prima, è consistita nell’ignoranza della tradizione illustre; il che non significa che Verga non conoscesse e non apprezzasse le grandi opere della tradizione classica. Le conosceva eccome, solo che egli comprendeva benissimo che per l’Italia post-risorgimentale occorreva rompere con la tradizione classica, occorreva una nuova letteratura, occorreva un nuovo modo di fare romanzo, cosa che, del resto, aveva già intuito il Manzoni. E, dunque, occorreva rappresentare oggettivamente la realtà, darne il documento, anche spietato, e, se si voleva (come lui voleva) narrare il mondo degli ultimi bisognava adeguare lo stile e il linguaggio alla materia narrata. Pertanto, nella narrazione verghiana prevarrà la tecnica del discorso indiretto libero, che è quasi a un passo dal monologo interiore che sarà ampiamente utilizzato dai decadenti. Il discorso indiretto libero riassume i pensieri del protagonista o dei protagonisti (il coro dei popolani di Acitrezza) e li espone, il più delle volte, con la mimesi dialettale, cioè con l’imitazione del parlato siciliano. In tal modo il benestante Verga è sceso tra il popolo, tra la plebe e, per darle voce, attua quella che è stata definita la regressione, cioè scende al livello dei parlanti del popolo e rinuncia all’italiano colto, al linguaggio formale alto, rinuncia, insomma, al canone della letterarietà che è una caratteristica soprattutto italiana che, purtroppo, rende talvolta di difficile lettura e comprensione testi di grande valore letterario, limitandone la fruizione a livello di massa.
Dunque, i nuovi protagonisti delle opere di Verga sono i poveri pescatori o contadini della Sicilia (è questo il cosiddetto regionalismo) ma sono anche quelli che da poveri diventano molto ricchi dopo aver tanto lavorato e accumulato: sono gli eroi della roba e del moderno profitto capitalistico, magari agrario, come Mazzarò e Gesualdo Motta. Tutti, però, poveri e ricchi, sono – secondo la poetica di Verga – dei vinti, degli sconfitti, con un unico destino di infelicità: i poveri sono degli sconfitti in senso socio-economico e i ricchi sono degli infelici e, quindi, anche dei vinti, degli sconfitti perché magari don Mazzarò, alla fine dei suoi giorni, si avvede che tutta la roba accumulata non sa a chi lasciarla e se la vorrebbe portare con sé all’altro mondo, e perché magari mastro-don-Gesualdo ha voluto innestare il pesco sull’ulivo, cioè ha voluto sposare un’aristocratica per fare la scalata sociale dopo quella economica. Ma: non si innesta il pesco sull’ulivo, gli aveva detto più di una volta il vecchio padre ma lui, testardo, ha voluto sfidare il destino, il fato ed è stato punito. Ha sfidato la ferrea logica del fatalismo e del pessimismo meridionale di cui era affetto lo scettico Verga, secondo il quale, nella vita e nel mondo, domina un destino, un fato cieco per cui così è sempre stato, così è e così sarà sempre e ogni possibilità di poter cambiare questo doloroso destino fatto di sconfitta, di sofferenza e di morte è impossibile. Ogni tentativo di hybris, ogni coraggioso tentativo di sfidare, di opporsi a questo cieco fato viene inesorabilmente punito con la sconfitta dolorosa e anche con la morte più assurda. Nei Malavoglia i protagonisti cercano di cambiare la loro vita con il commercio dei lupini ma la loro barca, la Provvidenza (che appare una provvidenza alla rovescia…), viene travolta da una tempesta e il mare sarà la tomba di Bastiano, il capo della numerosa famiglia di pescatori che, adesso, avrà come punto principale di riferimento il vecchio e saggio padron ‘Ntoni. Come se non bastasse, c’è anche il debito per l’acquisto dei lupini e la Casa del Nespolo viene pignorata…
Siamo a quelli che Pirandello chiamerà gli assurdi penosi della nostra esistenza. E in Verga ce ne sono più di uno. Si pensi alla storia infelice di Gesualdo, homo oeconomicus per eccellenza, che da muratore diventa un ricchissimo costruttore di case. Ha tante case e tanti terreni, tanti che non sa neppure lui quanti siano davvero; in uno di questi terreni vive da tempo Diodata, una donna molto bella che lui ama e da cui avrà due figli maschi. Però, Diodata, che sembra avere nelle vene sangue di barone, tanto è bella e fine, non può aspirare ad essere ufficialmente la sua donna perché è di ceto sociale troppo basso: dovrà restare per sempre la fedele e devota amante, tanto devota che quando si rivolge a lui con il voscenza, si infastidisce perchè avverte che quella devozione lui non la merita, lui che ha preferito sposare l’aristocratica Bianca Trao per fare la scalata sociale, cioè una donna che lo ha sposato solo per i suoi soldi e che non lo stima e prova un profondo ribrezzo ogniqualvolta è costretta ad avere con lui un amplesso: si fa il segno della croce e chiude gli occhi… Non solo ma – e qui siamo a un altro assurdo penoso – Bianca, prima di sposarlo, ha avuto una relazione sessuale con un suo cugino perdigiorno ed è rimasta incinta. La bambina che nascerà (Isabella) non è di Gesualdo e lui non lo saprà mai; inoltre, come a dimostrazione che non si innesta il pesco sull’ulivo, Isabella appare come ben diversa dal padre, anche lei sembra provare lo stesso ribrezzo della mamma e lui, nonostante abbia avvertito la freddezza della figlia, sul letto di morte, le lascia il messaggio della roba (sintetizzo): proteggila, difendila… tuo marito (che sperpera e spende a volontà…) non sa che significa fare la roba, ma io lo so… Io so cosa significa… E, poi, Gesualdo, ha un forte senso di colpa, uno scrupolo di coscienza: sa che ci sono i due figli avuti da Diodata (quelli sì, veri figli…) e che non può lasciarli senza dar loro qualcosa. E del resto quei due, la roba, la pretendono perché sanno che il loro vero padre è lui e non l’uomo che Gesualdo ha fatto sposare a Diodata come copertura…
Nella Weltanschauung di Verga ci sono tante altre cose assurde, paradossali e terribili della vita che, spesso, ci fa rivivere attraverso la tecnica dello straniamento, cioè, per es., presentandocele come normali quando si sa che normali non sono, e chi legge non può non restare alquanto destabilizzato e costretto a riflettere e a prendere posizione.
In verità, tutta l’opera di Verga ci costringe a riflettere, a riflettere, per es., sul fatto che un positivista (perché Verga appartiene alla cultura positivista) che, come tale, dovrebbe avere fiducia nel progresso, nella tecnica e anche nel futuro, alla fine si rivela un pessimista e un fatalista che sembra non credere affatto nella Modernità e, anzi, ne fa una critica spietata e corrosiva. In verità, Verga, dopo Rousseau e Leopardi, è il critico più feroce della Modernità deflagrata con la Rivoluzione Industriale che, soprattutto, nella seconda metà dell’Ottocento, si è ormai diffusa in tutto il mondo occidentale con tutti gli aspetti positivi e negativi e le conseguenze e gli effetti anche devastanti sulle vite degli uomini. Verga si avvede che il mondo moderno è hobbesianamente spietato ed è basato sulla legge del successo, del profitto, del denaro e dell’egoismo: ogni solidarietà tra gli esseri umani è negata e persino tra i poveri c’è, quasi sempre, una finta solidarietà. La parola amore, nella sua accezione più profonda, appare come cancellata dalla civiltà industriale e dai suoi pseudo-valori. Il padre di Gesualdo gli diceva spesso che: ognuno fa il proprio interesse e va per la sua strada e che così era stato, era e sarebbe sempre stato. È la legge fatalistica della vita che, pertanto, costringe alla conservazione e all’immobilismo sia sociale che politico. E se qualcuno pensa di tradire l’ideale dell’ostrica ecco che è destinato a sorte crudele, da vinto della vita. E che cos’è l’ideale dell’ostrica? È questo: come l’ostrica, resta saldamente attaccata allo scoglio per non lasciarsi travolgere dalla forza impetuosa del mare, così gli uomini debbono restare ben saldamente legati alle loro radici, al focolare domestico e ai valori tradizionali se non vogliono essere travolti dal mare terribile della vita. Ecco, i valori: è qui il vero nocciolo della critica di Verga alla Modernità. Perché? Ma perché il grande siciliano ha compreso appieno che la Modernità uccide i veri valori (famiglia, onestà, sincerità, unione e solidarietà tra consanguinei come tra estranei, ecc.) e li sostituisce con altri che non sono che falsi valori. Inoltre, a prevalere sono l’inautenticità della vita, la falsità e l’ipocrisia elevati a sistema. (Non è un caso che Verga, sia detto per inciso, non abbia mai pensato a sposarsi e ad avere una famiglia: evidentemente aveva perso ogni speranza e ogni fiducia anche nelle donne, magari dopo averne avuta anche più di una…). In mezzo a tutto questo, dobbiamo considerare che l’influenza delle teorie di Darwin ha il suo peso: Verga vede bene che la vita è una lotta per l’esistenza e che il più debole, il meno adatto è destinato a soccombere, ad essere travolto. Siamo al darwinismo socio-economico e, anche per questo, Verga è fermamente convinto che i poveri e gli ultimi della società debbono accontentarsi della loro situazione e stare ben attaccati allo scoglio se non vogliono essere travolti in maniera definitiva.
E, dunque, Verga era contro il progresso? A una lettura superficiale sembrerebbe di sì mentre a una lettura più approfondita non è proprio così. Non è pensabile che Verga al treno possa preferire il mulo. Piuttosto, egli non amava un certo tipo di sviluppo, come dirà di se stesso Pasolini quasi un secolo dopo. Il progresso è una cosa bella, il problema, però, è come viene gestito, quale direzione gli viene fatto prendere, quale tipo di sviluppo, insomma, ha questo progresso. A Verga (come poi a Pasolini) non piace il tipo di sviluppo con cui viene fatto procedere il progresso. Quel tipo di sviluppo distruggeva la civiltà contadina con i suoi grandi e autentici valori, valori che Verga non intende veder perduti perché comprende bene che quelli imposti da quel tipo di sviluppo non sono positivi. Similmente sarà per Pasolini che, in un diverso e peggiorato contesto socio-economico-culturale, lamenterà la perdita di quegli stessi sani valori, dirà tutto il male possibile della televisione e del consumismo, visti come inedite forme di fascismo che hanno portato all’omologazione e alla mutazione antropologica degli italiani.
In conclusione, Verga ha una visione tragica della vita, dominata da un fato inesorabile che tutto mantiene immobile e fermo, un mondo in cui, diversamente da Manzoni, manca la luce di Dio e la Provvidenza è una Provvidenza alla rovescia. Il pessimismo è totale e, volendo istituire un paragone, Leopardi finisce per apparire come uno degli autori più ottimisti della nostra letteratura. Si tratta di una visione fatalistica in cui domina il pessimismo tipicamente meridionale che davanti a sé non vede altro che sconfitta, dolore, morte e anche l’impossibilità di ogni reale cambiamento. Una visione duramente criticata da un altro grande scrittore siciliano come Leonardo Sciascia che, pure, tanto amava il suo conterraneo. Eppure, nonostante questi aspetti non condivisibili della visione del conservatore e immobilista Giovanni Verga, non puoi non amare un autore così ricco di grandi valori e ideali per il quale la grandezza dell’uomo consiste nella virile accettazione del proprio destino. E forse egli stesso visse la propria vita da vinto e da rassegnato all’impossibilità che un mondo così alla rovescia possa mai cambiare. Non è un caso che dopo aver scritto tanti libri, Verga si chiuderà nel silenzio per vent’anni: approdato ormai alla disillusione, al disincanto totale, sente di non aver più nulla da dire agli uomini. Comunque, il conservatore Verga ha fatto conoscere la dura realtà delle plebi del Sud del nostro paese e fatto emergere quella che poi sarà definita la questione meridionale che, in seguito, risulterà sempre più evidente con le famose inchieste di fine Ottocento, come quella, per es., di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.
L’eredità di Verga è enorme. Dicevo, all’inizio, che egli è un ponte gettato sul Decadentismo e lo abbiamo visto: visione tragica, pessimistica della vita, senso della sconfitta, sfiducia nella Modernità borghese e positivista, gli assurdi penosi e i paradossi della vita, ecc. Verga anticipa, fa intravedere la frantumazione dei grandi valori, degli ideali e delle certezze che sorreggono gli uomini. Gli è ben chiaro che la tecnica e la scienza hanno rotto l’incanto del racconto biblico provocando quello che Max Weber avrebbe definito il disincanto del mondo. Ma l’erede più diretto di una certa poetica non è solo Pirandello. La poetica del Verismo, con i suoi canoni dell’oggettività dell’opera d’arte e del romanzo come documento, avrà come eredi i realisti degli anni Trenta del ‘900 e negli anni ’40 e ’50 gli scrittori del Neorealismo (Pavese, Vittorini, Pratolini, Fenoglio, Silone, Bernari e altri) e i registi che hanno creato il grande cinema neorealista (Rossellini, De Sica, Visconti, Zavattini, ecc.). Infine, neorealista in letteratura e in cinematografia è stato anche quel Pasolini che è stato citato più sopra come un erede della critica e della contestazione verghiana della Modernità e di un certo tipo di sviluppo imposto dalle classi dominanti al progresso economico, sociale e culturale. Quel Pasolini che, per puro caso, nacque proprio cento anni fa, nel 1922.
*Salvatore La Moglie, scrittore