Cenni sulla poesia di Laura Ficco
Un’occasione unica per quanti si accingono a leggere per la prima volta la poliedrica sfaccettatura offerta dalla produzione poetica della poetessa sarda
Le pochissime liriche, che qui si prendono in esame mediante una lettura attenta e coerente, sono tutte inedite. Per cui si richiamerà l’attenzione del lettore su una manciatina di versi, ripresi solo da due liriche. Troppo poche per scandagliare il complesso e articolato mondo poetico di Laura Ficco. Ma, anche l’attenzione un po’ più approfondita su una sola lirica richiederebbe una trattazione molto più lunga ed esaustiva. Mentre chiedo venia ai lettori per il poco, che riesco a offrire, ringrazio la poetessa per la fiducia accordata alla mia persona per quel poco, che riesco a esprimere. Colgo, quindi, l’occasione sia per complimentarmi con la poetessa per l’originalità e per la profondità dei temi affrontati con particolare sensibilità, sia per il privilegio di avere sotto gli occhi liriche che nessuno fino a questo momento ha avuto occasione di leggere, gustarne la bellezza, arricchirsi del messaggio, che, sempre vivo e attuale, veicola con purezza di immagini e sinteticità sintagmatiche. È, ancora, un’occasione unica sia per il lettore raffinato e intenditore di poesia, sia per quanti si accingono a leggere per la prima volta un aspetto della poliedrica sfaccettatura offerta dalla produzione poetica della poetessa sarda, che riflette nella produzione lirica l’assiduo ripiegamento, a volte doloroso, sulla complessa e travagliata vicenda del vivere.
Non è compito facile anche per un critico e un lettore attento tracciare anche per sommi capi le tematiche affrontate dalla poetessa, Laura Ficco. È arduo, se non impossibile, sfiorare i segreti moti dell’anima, che, di volta in volta, si concretizzano in versi scarni, taglienti come rasoi. Ogni verso è una picconata, che lascia tracce profonde anche nel lettore frettoloso e distratto. Penetrare nella genesi e nel travaglio interiore, che costituiscono la base e i moventi invisibili e inavvertibili dell’afflato lirico prima e successivamente scritto; scandagliare i reconditi avvii di un percorso poetico e lirico di rara suggestione, che coinvolgono e, nel medesimo tempo, travolgono il lettore nella meditazione sui temi più suggestivi della Poesia, non è agevole per le diverse implicanze culturali, sociali, filosofiche.
Leggere una lirica diversa, che non sgorga da romantiche illusioni o da triti argomenti riciclati o cicalati nei crocicchi, è prima di tutto un piacere spirituale, perché si incontrano spazi puri, cieli incontaminati, sentimenti, che denunciano un animo sensibile agli stimoli della più amara, e vera, riflessione sull’uomo, visto sotto angolature diverse. Nella poesia, essenziale e priva di orpelli retorici, di fronzoli inutili, di lungaggini senza senso, si avverte sincero e commosso l’animo lirico, che vive e crea sprazzi di autentica poesia, racchiusi in pochi versi, destinati a destare vive emozioni nell’animo del lettore e a lasciarvi segni indelebili.
La poetessa, però, non si ferma qui: la sua attenzione si sosta su più registri e cambia sensibilmente piano di lettura: dalla continua, e necessaria, presenza dell’uomo, passa con deciso movimento dell’animo alla natura, nella quale l’uomo vive e della quale è parte essenziale per il ruolo, che riveste, perché fornito di ragione e, in modo particolare, di libero arbitrio. Immersa nella riflessione sulla complessa, e inspiegabile, realtà dell’Uomo, colto nel suo ambiente naturale e vitale, la poetessa cerca in tutti i modi di scandagliarne con sensibilità prettamente femminile i segreti moti dell’animo. Ma, davanti all’insondabile mistero dell’esistenza, avverte la limitatezza e l’impossibilità di giungere alle cause prime dell’agire, dettate dall’egoismo e dalla cattiveria, e si chiede con lucida consapevolezza il perché di atteggiamenti e azioni non sempre consoni alla legge naturale, che vive nell’animo di ogni uomo: non danneggiare il prossimo, vivere nell’onestà, attribuire a ciascuno il proprio merito. Avverte in tutta la sua potenza la presenza della legge naturale, ma non riesce a trovare la ragione sui motivi, che spingono l’uomo a violare consapevolmente quanto è in lui impresso dalla natura, della quale è parte non secondaria.
La poetessa nell’assidua meditazione sull’Uomo, sulle cause prime delle sue azioni, della sua presenza e in modo particolare del ruolo, che ha nella società, non sempre riesce a trovare la spiegazione logica e si angoscia mediante versi molto vicini alla disperazione. Consapevole, a livello personale e universale, del limite imposto a ogni essere dalla natura, esprime questo stato con violenta protesta, per richiamare il proprio simile alla rettitudine, all’ordine stabilito dalla natura, alla presa di coscienza di essere parte della società, alla responsabilità del proprio ruolo: la poetessa, infatti, individua e descrive l’ordine, la regolarità, nonché la tendenza a interpretare i fenomeni più o meno complessi, presenti nell’ambito della vita sociale.
A queste osservazioni si aggiunge la vibrante denuncia determinata delle continue violazioni perpetrate a danno della legge positiva sotto varie forme. L’uomo sia per egoismo, sia per ignoranza sovente infrange in maniera eclatante la serie di norme, che la società civile si impone, perché siano rispettati i diritti di ogni essere partecipe d’una determinata società. La poetessa, che vive e sperimenta tutte le dimensioni e le tensioni della società nella quale vive, non esita a denunciare con chiarezza e con decisione le deviazioni e le contraddizioni. È, questo, il motivo, per il quale lirica, intitolata Forme deformi, nella prima strofa non esita a riflettere e ad invitare a una seria meditazione:
L’essenziale imbrigliato alla ragione,
dalle forme disadorne ed imperfette della mente
cercano l’ordine logico
contrastato dalla ribellione
ad una droga maldestra ed umbratile
che attanaglia membra, cuore, psiche,
per poi lasciarla inerme
su terreno umido e melmoso
con incubi sanguinolenti.
L’acuta e, nello stesso tempo, amara considerazione della poetessa sembra che sfoci in un velato e latente pessimismo, che attanaglia l’animo, quando si vede invischiato nella ricerca di cause, che non sempre consentono alla ragione di cogliere l’intrinseca logica delle apparenti discordanze, riscontrate nelle più banali azioni dell’uomo. L’agire del quale, il più delle volte, non è dettato da particolari esigenze, né legato a un ordine logico, che ne determini tanto il motivo, quanto la conseguenzialità. È faticoso e spesso impossibile rintracciare anche pallidamente un nesso logico, che leghi in modo corretto e coerente l’atto della mente con l’azione compiuta sovente in maniera irriflessa. Questo modo di agire, anche se trova una giustificazione nella complessa logica della psiche, sfugge all’analisi razionale e getta nello scompiglio l’ordine e la logica stessa, che la mente razionale si aspetterebbe. Leggendo questo brano molto intenso e pregno di allusioni non troppo velate alle impossibilità e ai limiti della mente umana, sembra scorgere l’accorata, e vera, riflessione, che Dante in Purg. III,37-39 mette in bocca a Virgilio:
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.
Esemplare la presa di coscienza della poetessa, la quale, davanti all’impossibilità di cercare la spiegazione logica e razionale degli accadimenti umani, adopera una metafora di rara efficacia evocativa:
per poi lasciarla inerme
su terreno umido e melmoso
con incubi sanguinolenti.
Nel prosieguo dell’amara considerazione, si riporta la seconda pericope, che costituisce anche la seconda la seconda parte della lirica. In questa strofa Laura Ficco, a ragione, aggiunge ancora un’amara considerazione, logica conseguenza di quanto in precedenza espresso:
Confusione d’identità
un velo oscuro mi veste,
è ermetico non riesco ad uscire,
a liberarmi.
Rimpiango le valli coperte di neve
ed il vento che soffiava libertà sul volto
mentre l’anima volteggiava lucida e sazia di senno.
Mi devo svegliare ed uscire dal tunnel,
la vita mia attende.
L’intelletto razionale nella ricerca affannosa di conoscere le cause di ogni azione, nonché gli effetti conseguenti alle scelte effettuate, si trova impaniata in grovigli irrazionali, logici solo in apparenza, perché l’animo nella logica razionalità non sempre ha ben chiari e delineati i presupposti, sui quali riporre le argomentazioni necessarie per trarre logiche e valide conseguenze, applicabili sempre e dovunque. Ma, quando l’animo, cosciente dei propri limiti, si rende pienamente conto che il proprio essere è circoscritto entro confini difficilmente superabili, trova la piena realizzazione nell’integrazione totale nella natura. La poesia, come per incanto, acquista luminosità, sonorità, armonia. La poetessa schiude allo sguardo del lettore un mondo incontaminato, ammantato dal magico candore della neve. La vita riprende il suo ritmo, ravvivato dal leggero soffio del vento, che suscita nell’animo le sensazioni più vive ed esaltanti. La poetessa con pochi tocchi, mediante un’accurata scelta lessematica e un’idonea disposizione sintagmatica, conduce all’improvviso il lettore nella dimensione panica e lo invita a respirare a pieni polmoni il bello, che la natura circostante gli pone sotto gli occhi.
Ma, quando attanagliato dalla logica conseguenzialità dei gesti ritorna alla logica stringente, avverte la limitatezza, si trova ancora su terreno umido e melmoso / con incubi sanguinolenti. Sgorga allora spontaneo e sincero il desiderio di uscire dal tunnel e di vivere la vita che l’attende. È, questo, un possente incitamento a guardare fiduciosi al futuro e vedere, accanto al male, il bene che si profila all’orizzonte. La lirica si chiude con il riscatto e la ferma fiducia a sperare che alla fine del tunnel ci sia sempre la luce, fonte di riscatto e di realizzazione.
La poesia, che a volte sfiora l’ermetismo, diviene più intensa ed evocativa quando si abbandona alla fantasia e richiama alla mente immagini e concetti adusi tanto al lettore, quanto al critico, che non deve penetrare nei reconditi penetrali della psiche, delusa e amareggiata, frustrata nei desideri e sopraffatta da incombenti necessità. Anche se qua e là emerge la presenza del dolore, la poesia diviene più limpida, più facilmente fruibile, come la lirica, intitolata Il silenzio dei filari. In questa poesia, densa e pregnante, si avverte un certo disagio del vivere a contatto con realtà non sempre piacevoli, che lacerano l’animo e procurano ferite, che non sempre il tempo riesce a rimarginare. La coscienza del dolore e, in modo particolare, l’impossibilità di uscire dal groviglio dei diversi malesseri, che avvincono lo spirito in una spirale senza fine, rendono i versi amari e, nel medesimo tempo, gradito companatico per affrontare i disagi, cui l’uomo durante la vita va necessariamente incontro. La vis vitalis tuttavia, sempre presente, soprattutto nelle occasioni più tetre, rende meno amaro il cammino, meno difficoltosa la via per affrontare il percorso reale tracciato dalla sorte. La poetessa con immagini vive, plastiche, suggestive, suscita nel lettore la coscienza della propria esistenza e lo invita a sollevare la testa, per affrontare quello che Eugenio Montale definiva male di vivere, perché accomuna tutti gli uomini nello stesso destino di sofferenza e di malessere. La poetessa, consapevole che questo destino grava su ogni uomo, è cosciente di non poterlo debellare, ma solo alleggerire mediante il progressivo distacco dalla realtà, sempre, e comunque, fonte di dolore. Come Montale, anche Laura Ficco prende le mosse da immagini quotidiane, dimesse, per porre all’attenzione del lettore il male, cui ogni giorno va necessariamente incontro. È opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sui versi della prima strofa, per assimilare nella disposizione delle immagini il messaggio veicolato con lessemi oculatamente scelti e disposti in versi:
Filari di linfa
aggrappati a filo spinato
fobie in occhi di cenere,
lacrime arse
annaspano sulla soglia
del dolore.
Un rimpianto,
scava in anni luce
ricordi di delizie.
Smorfia su mute labbra
silenzio assordante
che trapana le meningi,
il tacere chiude la porta
alla vergogna.
Sale la febbre nella
solitudine dell’anima.
Come già accennato la poetessa si china cosciente sulla vita d’ogni giorno e con parole vibranti di commozione partecipa al percorso che attende ogni uomo, dalla nascita alla morte. Gli uomini nel loro cammino quotidiano, mediante un ardita metafora, sono definiti filari di linfa / aggrappati a filo spinato. L’immagine desta nella mente del fruitore la visione di una lunga teoria di uomini, che, a somiglianza delle viti, sono attaccati a un filo, perché non striscino per terra. A differenza delle viti, gli uomini fin dalla nascita sono attaccati al filo spinato dell’esistenza. Sono chiamati in causa qualche verso più avanti nel significativo e pregnante sintagma annaspano sulla soglia / del dolore. Nella strofa, divisa in tre periodi di diversa estensione, la poetessa condensa ed esamina con mente lucida e compartecipe gli ingredienti sottesi al male cosparso nella vita di ogni giorno. La lettura di questa manciata di versi sembra collegare inconsciamente il lettore a quanto si legge nel libro della Genesi, dove, dopo il peccato, Dio dice ad Adamo che la terra gli produrrà triboli e spine. Nella lirica, però, emerge anche qualche sprazzo di gioia, che allevia per qualche istante le amarezze della vita. Ma il ricordo rinnova il dolore e lo rende più cocente, penetrante, lancinante se, mediante un efficace ossimoro, il silenzio assordante … trapana le meningi. Al ricordo delle gioie passate l’anima precipita nel baratro della disperazione e, per non rendere gli altri consapevoli dei propri travagli interiori, tace e chiude la porta / alla vergogna. Si rileva, in questa strofa, la mancanza della fede, la carenza della speranza, la chiusura alla comunicazione e alla compartecipazione del proprio malessere. Si vive lo stato d’isolamento e l’uomo, chiuso in se stesso, non si rivela più l’essere sociale, che vive e condivide con il prossimo tanto le gioie quanto, e soprattutto, il dolore. Si può dire che Laura Ficco coglie e denuncia la brutta realtà dell’uomo attuale, il quale, nascosto nel suo guscio vive nella solitudine più tetra, perché si chiude sempre più nell’isolamento, dal quale stenta a uscire. Non a caso la poetessa chiude la densa strofa con un marcato segno di pessimismo: sale la febbre nella / solitudine dell’anima, che prosegue anche nella strofa successiva, chiusa dall’amara constatazione dell’abbandono anche da parte del Verbo, cioè da Dio: il Verbo mi ha abbandonato? In questo verso si avverte il grido lacerante e della solitudine e dell’abbandono. La poetessa, chiusa in se stessa a meditare sulle sofferenze della vita, non alza lo sguardo verso la luminosità del cielo e sulla luce, che pura e cristallina un’anima così sensibile potrebbe cogliere in tutto il suo splendore. È assente dalla limitatissima produzione lirica il tema della Provvidenza, la presenza del divino nel mondo, troppo materializzato e pervaso da egoismo e violenza.
*Orazio Antonio Bologna, filologo classico