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Calabria: aspetti orfico-dionisiacidel sito di Castiglione di Paludi

Sulle pietre, principi complessi di teologia filosofica, astronomia, astrologia antica e storia delle religioni

All’interno del sito archeologico di Castiglione in provincia di Cosenza, lungo la cinta muraria, a circa una trentina di metri della cosiddetta torre nord, o per meglio dire porta nord o “solare”, ma anche struttura raffigurante un fuso, il quale non sembra essere dissimile dalle descrizioni fatte da Platone nel mito di Er, c’è un trono

Si, un trono fatto di pietra, facilmente visibile e identificabile come tale, che non è mai stato identificato dagli archeologi che vi hanno lavorato in quel sito; non è mai stato individuato come tale e rilevato. Da sempre è considerato un semplice pezzo di muro, in parte caduto; un rudere privo d’importanza e significato.

La svista o mancata identificazione di questa struttura lungo quel percorso strutturato è paradigmatica ed eclatante, perché venne scambiato per un pezzo cadente di muro fortificato, costruito a scopi difensivi e poliorcetici. No, non è un pezzo di frammento di cinta protettiva, risparmiato nella sua posizione, dalle manomissioni degli uomini o dal logorio del tempo o dall’accidentalità degli eventi, ma un trono, un sedile a forma di trono, che serviva per praticare alcuni riti e cerimonie.

Presumibilmente, in tempi molto più antichi, indigeni di stirpe Enotria, e successivamente ancora indigeni e greci che praticavano riti orfici dionisiaci abitavano questi luoghi. Lì, il capo della congrega o sciamano praticava le sue funzioni in onore degli dei, tra cui il rito del sacrificio, che fosse animale o umano, in attesa del responso degli dei, esercitando il suo potere sugli uomini, in nome della divinità, e seduto come giudice su quel trono, come possiamo immaginare dal racconto di Er, il quale giudicava come il brabeus Minosse o Ade nell’oltretomba. Nella linguistica greca, il termine che indica colui che giudica e assegna la vittoria dopo una competizione o gara è il «brabeus», cioè, il giudice. 

Un elemento linguistico di sostrato, e non appartenete alla tradizione indoeuropea, quindi di origine incerta, così riporta il dizionario greco. E’ lo stesso termine che traduce il latino «arbiter» e l’italiano arbitro. Noi sappiamo che a Castiglione le fonti scientifiche indicano una larghezza delle strade compresa tra 4 e 10 metri. Un luogo dove si svolgevano delle competizioni con i cavalli e le bighe, o i carri, come vediamo dalle raffigurazioni a suolo. Il «brabeus» di cui parliamo, era sicuramente il giudice o colui che presiedeva al verdetto finale di quelle gare, colui che assegnava i premi a seguito della vittoria nelle competizioni o corse di cavalli alla Ben-Hur, il film hollywoodiano, anche però con ragioni sacrificali. 

Quest’animale, dalle varie “situazioni” presenti in quel sito, è raffigurato a terra come condottiero di un cavallo su una biga. D’altronde le strade erano molto larghe in questo posto: 4 in alcuni punti e il vialone 10 metri, strade dove venivano praticati riti con corse di cavalli, le quali forse finivano poi anche con il sacrificio finale e la morte del condottiero stesso, e del cavallo. Riti forse a carattere matriarcale, con prevalenza etnica e culturale mediterranea occidentale, ma a sua volta, con una fortissima presenza di tradizioni proto indoeuropee, e questo ce lo confermano i riti e le tradizioni sacrificali dello stesso cavallo. 

Il «brabeus» greco è quindi un capo, un condottiero, colui che stava al vertice di un complesso sistema sociale e religioso misterico, in una cornice sociale e religiosa matriarcale. E le due figure a cui fa riferimento Platone con la Moira Ananke e il dio dionisiaco della figura della collina, molto probabilmente paredro, della Necessità e della luce e del fuoco, una sorta dell’Agni, dio del fuoco sanscrito, sono al vertice di questo sistema esoterico che le strutture ci indicano e Platone ci racconta nella Repubblica. Questo sembrano suggerirlo le immagini dalle varie fattezze antropomorfe fiammeggianti, e simbologie varie incise sulla collina e sul terreno. 

Ma la radice «bra-» è anche la parte suffissale del composto Calabria, con «-bria». Non ha importanza se quel trono di pietre lungo quel serpente litico dalle strane ma mitologicamente comprensibili forme e significati, sia lo scranno del re o dello sciamano sacerdote, che forse ricopriva entrambe le cariche, ma è la metafora del potere, dell’autorità regale e divina. Siccome abbiamo fino a questo punto parlato delle vicende religiose e cultuali di un popolo, e visto tutto il simbolismo a carattere religioso presente in quel contesto, non possiamo non dire che quella struttura (il trono), non sia legata a tutto il resto, e che non sia il simbolo del potere divino, sia di Ade e di Persefone, come di Minosse e Radamanto, i grandi giudici dell’aldilà. Il trono non è soltanto la raffigurazione stabile e plastica del potere regale e divino, ma anche, secondo Olimpiodoro è servito a Dioniso per porre l’anima, prima di perdere la sua sfericità e divenire conica, secondo la magistrale rappresentazione dei tronchi di cono raffigurati a Zungri (come pure nel celebre quadro del pittore fiammingo H. Bosch), nella grotta grande, quando è ancora nella parte più alta e pura del Cosmo, lì, da Dioniso, l’anima è stata posta sul trono, prima che il figlio di Zeus la mandasse sulla terra, e di conseguenza subisse la fascinazione di un corpo, e poi entrarci. 

A Zungri, però la rappresentazione dell’anima, secondo non più modelli sferici ma conici, tenta di salire in cielo e lasciare il mondo dei morti, e la sua parte umida, attraverso anche l’essicazione (argomento che tratterò altrove), per divenire sempre più leggera e salire verso la cuce. Ma l’entrare dell’anima in un corpo, significava dare inizio ad una nuova vita, e quindi ad una nuova morte, come dire: sprofondare nella dualità del principio e della fine, della vita e della morte, secondo i principi di kal, “tempo vorace”, e bria, forza della vita, “essere pieno da scoppiare, o gonfio e rigurgitare di”, come un seme sottoterra, quando sta formando la germinazione. Ma anche uomo ricco, come Plutone, pieno, abbondante. “Della terra, essere rigoglioso e lussureggiante”; mentre briazo, (“solo al presente o all’imperfetto” dice il dizionario), ci dà brio, come abbiamo visto, che significa gonfio, come il seme del fagiolo quando si mette nell’acqua. Ma se da briazo passiamo a bryas, vediamo che ha un sinonimo presente come toponimo in alcune località della Calabria: bias, come toponimo bya, che significa “gufo reale”, ma il gufo reale è il simbolo di Ade, il dio degli inferi, il Plutone della ricchezza che abbiamo visto poco fa, identificabile con Ade e Pluto, quest’ultimo, il dio della ricchezza di carattere agrario. Concetti legati tra di loro che rimandano al culto degli dei inferi: Ade e Persefone, come dei del mondo dei morti, come la Madre, e nello stesso tempo però come fonte di vita e di rigogliosità, di rigenerazione e di purificazione, aspetti molto distanti dal pensiero giudaico cristiano, comunque greco e anario, anche fenicio. 

Tutte queste pratiche, riti e quant’altro, avevano a che fare con la morte reale o apparente, in un contesto iniziatico purificatorio e liberatorio. Le «teletai», ovvero le iniziazioni, venivano fatte per riportare la molteplicità(Materia), all’unità(Spirito) e l’anima su quel trono, come dire, ristabilire il principio divino dell’Uno. Questo veniva fatto dall’iniziato, il mystai che diveniva epoptos, arrivando al grado superiore, e poi con l’holokleros, il grado più alto, proiettato verso la Luce; colui che lasciando la vita terrena, morendo, in modo metaforico o no, perché iniziato, saliva a Dio, mentre i non iniziati, o dannati, rimanevano nel fango e nella melma, «borboros», la materia bestiale, nella completa assenza della luce dello spirito, sosteneva Olimpiodoro nel suo commento al Fedone di Platone. Sì, quello che si vede a Castiglione è un trono sacro, presso la porta nord, ossia la porta degli dei, dalla quale gli dei stessi si muovono dall’aldilà, per venire sulla terra, come ci ricorda Alkinoo, nell’Odissea. Presumibilmente, da quanto appare sulla struttura come figure simboliche, questo posto(la porta nord o cerchio solare)  all’interno dell’area, era il luogo dove ci si metteva in contatto con le divinità di riferimento, e veniva officiato il rito in onore del dio, forse Elio, nella sua ambivalenza di luce  solare e di fuoco terrestre nelle viscere della terra, o al di sotto di essa, come elemento inferino, o “sole nero”: il dio della luce che compie il suo viaggio da Occidente ad Oriente durante la notte, attraverso gli inferi, per essere pronto l’indomani a risorgere ad Est. Era il luogo delle cerimonie sacre, perché in esso cercavano gli dei e gli antenati, un luogo in parte come i nostri cimiteri. Se il trono di Castiglione si trova in prossimità della testa e del simbolismo solare, sull’estremità a nord, cioè nel “Cielo”, figurato, del mondo del Nord e degli iperborei, oltre le spalle di Elio, e nel basso regno di Ade e Persefone; ma metaforicamente rappresentato  lungo il grande muro, il grande corpo del serpente o drago celeste, il drago della costellazione, la grande figura ofidica primaria; significa che essi si collocavano nel grande flusso che scorre, quello del “panta rei”, quello dell’esistenza universale, del creato e del principio della divinità Creatrice dell’Universo, e dell’“Axi Mundi”, ovvero del divenire.  

Altro che rimasugli di mura sgangherate, fatte da società barbare e trogloditiche, le quali erano soltanto in grado di fare qualche stramba palizzata poliorcetica difensivistica, per prevenire ipotetici attacchi di altrettanti primitivi uccisori delle loro stesse stirpi, in nome di una divinità feroce e sanguinaria. Qui, su queste pietre, troviamo principi complessi di teologia filosofica, astronomia, astrologia antica, di storia delle religioni e di popoli dal punto di vista etno-antropologico, tutto ancora da scoprire; e forse principi a carattere orfico, secondo la tradizione greca, ma anteriori alla collocazione storica dell’orfismo. 

Sicuramente troviamo teorie dionisiache della morte del dio a causa dei Titani, secondo valenze cretesi, pre-orfiche, ovvero di un ritorno del Figlio al Padre, attraverso non la messa nel paiolo, e quindi ricomposizione della molteplicità nell’unità, operata da Apollo, ma un ritorno nel grembo della madre con gli elementi del cuore ricondotto da Atena a Zeus e maciullato da quest’ultimo e poi fatto inghiottire alla giovane madre Semele, ovvero la Luna, per una nuova nascita di Dioniso. Il problema, fino ad oggi è che si è fatta e si continua a fare  una narrazione antistorica e favolistica(vedi Zungri e altre situazioni), non solo qui, ma dappertutto, quando si toccano le tradizioni e la cultura indigena e preellenica in Calabria, come possiamo vedere dalle foto del libro, i cui contenuti non possono certamente essere contestate da alcuno, accademici e/o archeologi compresi. La questione, a questo punto, non è se queste cose siano vere, perché, come nel nostro caso, sono verità incontrovertibili e lampanti, le immagini sul terreno, ma se verranno capite, comprese e poi si avvii un meccanismo di rimodulazione del pensiero sulla storicità di quei fenomeni culturali, tale che ci permettano di costruire un metodo di lavoro più adeguato, con la collaborazione degli enti di riferimento, che fino ad oggi non hanno saputo o voluto vedere tutto ciò che sta attorno a noi e ad essi. 

L’esempio più strabiliante sta avvenendo con i palmenti dello basso Ionio, mai presi in considerazione fino ad oggi, ci è voluto l’interessamento di alcuni studiosi locali e la forza dei social, ad imprimere una svolta in quelle istituzioni, a volte sorde, per capire che sono cose degne d’interesse, sia sul piano storico archeologico, che culturale. Non sono in parte d’accordo, però con gli studiosi locali, quando non danno ai palmenti anche un aspetto teriomorfico figurale, e quindi anche cultuale o di ierofania della divinità celebrata presso le comunità antiche. 

La Calabria soprattutto, ma anche le regioni vicine, come Lucania e Puglia, hanno un patrimonio immenso sul piano megalitico e del passato pregreco.

*Vincenzo Nadile, ricercatore