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Bianca Stranieri, Giovan Battista Manso, nobile e imprenditore (Edizioni Paparo, 2022)

C’è, di certo, anche Benedetto Croce tra gli studiosi che hanno contribuito a consolidare un’immagine negativa dell’aristocrazia napoletana del Seicento: oziosa, ignorante, parassitaria. «Essi» scriveva Croce nella celeberrima Storia del Regno di Napoli (1924) «vivevano in gran numero e quasi tutto l’anno, nella capitale. Vivevano nel lusso e nel fasto, senza cura di uffici pubblici, tranne la partecipazione alla milizia, […] senza altre forme di lavoro produttivo […]. Grande era sempre la meraviglia dei forestieri a vederli tutto il giorno in ozio e occupati solo in esercizio d’arme o, come oggi si direbbe, nello sport, e in conversazioni e chiacchiere nei sedili, senza uso del mercatare».

Ma, si sa, ogni generazione ha il diritto di rileggere le fonti e riscrivere la Storia secondo il proprio sentire. Così, oggi, sono sempre più numerosi coloro i quali si chiedono fino a che punto la ricostruzione storiografica di Croce sia stata libera da condizionamenti politico-ideologici, se non proprio da pregiudizi. Fino a che punto, ad esempio, la denigrazione sistematica dell’antica aristocrazia napoletana sia stata fondata su dati di fatto e non frutto perverso dell’ideologia risorgimentale, chiamata a legittimare la costruzione dello Stato unitario, ottenuta per annessione del Regno di Napoli ai domini della monarchia sabauda, con implicita azione di occultamento e svilimento, più o meno consapevole, della realtà statuale, sociale ed economica preesistente. 

Tra gli studi più recenti che aprono squarci di nuova luce sulla fisionomia dell’aristocrazia napoletana a cavallo tra il XV e XVI secolo c’è la raccolta di dati iconografici e biografici compiuta da Bianca Stranieri, Giovan Battista Manso imprenditore e le sete del Real Monte Manso di Scala (Editori Paparo, 2022). Una bella e ricca prosopografia che, come sottolinea la stessa ricercatrice, «concorre ad attenuare l’idea, in parte stereotipata, secondo la quale gli appartenenti alle famiglie nobili […] avrebbero completamente abbandonato l’impegno diretto negli affari e nelle manifatture e si sarebbero esclusivamente rivolti ad attività confacenti al loro status».

Giovan Battista Manso (1567-1645), marchese di Villa, era figura già nota agli studiosi per la sua statura di letterato, di mecenate e filantropo. Merito di Bianca Stranieri è, tuttavia, quello di essersi chiesta da dove provenissero gli ingenti capitali necessari per finanziare le tante attività filantropiche, e di non essersi accontentata della convinzione corrente secondo la quale tale forza economica potesse essere frutto del vantaggioso matrimonio contratto con Costanza Belprato. Ella, invece, intrecciando fonti e documenti provenienti dall’Archivio del Real Monte Manso di Scala, dell’Archivio Storico del Banco di Napoli e dell’Archivio di Stato di Napoli, ha portato alla luce le attività legate agli arrendamenti, agli acquisti di immobili e, soprattutto, al commercio e alla lavorazione della seta. In altre parole, fu proprio grazie alla pratica dell’attività commerciale e proto-imprenditoriale che Giovan Battista Manso strutturò il proprio status nobiliare su basi economiche solide e si pose quale significativo campione di ‘homo novus’, consapevole del principio che non poteva darsi dignità nobiliare senza ricchezza economica e che, quindi, l’onore militare e le doti intellettuali andavano congiunte a concrete capacità mercantili e finanziarie, le più ampie possibili.

Dopo un rapido richiamo alle origini dell’antica e influente famiglia Manso, proveniente da Scala, borgo situato sulle colline della Costa d’Amalfi, e presto aggregata al patriziato napoletano del Seggio di Porto, Bianca Stranieri ricorda che Giovan Battista fu insignito del titolo di marchese di Villa Lago nel 1621 da re Filippo IV. La sua attività di filantropo, già ampiamente indagata da altri biografi, lo vide protagonista di molteplici iniziative. Nel 1601, insieme ad alcuni sodali, ogni venerdì era solito portare cibo e vestiario ai ricoverati dell’Ospedale degli Incurabili. Nel 1602 fu tra i sette aristocratici fondatori del Pio Monte di Misericordia, l’istituzione benefica che commissionò a Caravaggio la grande tela raffigurante le Opere di Misericordia. Nel 1608, presso la propria abitazione, istituì il Monte Manso con lo scopo di sostenere l’educazione dei giovani provenienti da famiglie aristocratiche. Pochi anni dopo, il 3 Maggio del 1611, presso il chiostro di Santa Maria delle Grazie istituì anche la prestigiosa Accademia degli Oziosi, che ebbe tra i suoi iscritti Giovan Battista della Porta, Giovan Battista Basile, Giovan Battista Marino e la famosa ‘pittora’ Artemisia Gentileschi. Di rilievo anche la sua produzione letteraria, maturata all’ombra del Marinismo. Torquato Tasso gli dedicò uno scritto, Il Manso, overo de l’Amicizia (1592) al quale egli restituì la cortesia realizzando una Vita di Torquato Tasso (1634).

Ma, come dicevamo, tema centrale dello studio di Bianca Stranieri è la ricostruzione della «fitta rete di attività del Manso legate al traffico e al commercio, in particolare della seta». Una vicenda personale che, tuttavia, presenta anche un valore paradigmatico, poiché s’inquadra nel più generale quadro politico-economico della città, divenuta già in età aragonese un «imponente centro di manifattura e diffusione internazionale della seta, raggiungendo l’apogeo tra il 1580 e il 1639 […]. Anni in cui Napoli era divenuta una delle più popolose capitali d’Europa, pullulante di filatoi, botteghe di setaioli, “tinte”, tessitorie, fondaci di mercanti, di numerosissime presenze di stranieri, di attività finanziarie collegate al commercio e alla lavorazione della seta».

Nel 1606, dunque, la maggior parte dei  267.973 abitanti di Napoli era impegnata nella lavorazione della seta e anche un’aliquota rilevante delle famiglie della grande feudalità finanziava e gestiva la produzione serica. Tra questi Gian Battista Manso, che le carte d’archivio ci restituiscono quale aristocratico mercante e proto-imprenditore, impegnato a districarsi tra gabelle, arrendamenti, rendite immobiliari e, soprattutto «al centro di traffici e compravendite internazionali estesi fino all’Oriente, come del resto avveniva per un folto numero di nobili-mercanti suoi contemporanei».  

Dovremo, dunque, riconsiderare la consolidata immagine di Napoli capitale ammalata di elefantiasi? Di grande capitale parassitaria che succhia e sperpera le risorse finanziarie del Regno? Dovremo abituarci ad annoverare a buon diritto anche Napoli, accanto a Firenze, Genova, Venezia, Bologna, tra le grandi città italiane impegnate nella manifattura serica?

Certo occorreranno altri studi a più ampio spettro e indagini di storia economica più approfondite, a partire dalla questione fondamentale degli ‘arrendamenti’, il sistema di appalto delle imposte. Ma, intanto, la strada è stata aperta e le novità non tarderanno ad arrivare. 

*Raffaele Messina, scrittore