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Appunti di un viaggio

Il percorso per la conquista dei diritti femminili, disseminato di ostacoli, parte da molto lontano

Il percorso per la conquista dei diritti femminili, disseminato di ostacoli, parte da molto lontano, e questo, nonostante che la differenza di genere sia un dato di fatto, e un dato positivo. Se i due generi si uniscono con l’intento di potenziarsi a vicenda si arriva a una crescita vantaggiosa per la società, a un equilibrio che costruisce anziché demolire. Se questa verità fosse stata accettata, per esempio si fosse dato più spazio alla voce femminile, ci sarebbero state meno guerre, la donna per sua natura, materna, non ama la guerra, si sarebbero trovati sistemi più armonici, meno violenti, non si sarebbe creata, anche, fra donna e donna, quel fenomeno di rivalità strisciante, spesso inimicizia, che ha indotto alcune a dare spazio all’uomo quale sinonimo di potere, una presenza da compiacere per conquistare anch’essa potere. Invece da questa diversità bisogna partire per raggiungere un cammino che non veda un genere prevalere sull’altro, tentare di tenerlo in soggezione. Ma perché ciò si realizzi, bisogna tener conto della natura dell’altro, approfondirne la personalità. E, a questo riguardo, non è da molto che gli studiosi si sono dedicati alla comprensione della realtà femminile, superando stereotipi. E infatti i risultati contraddicono tanto di ciò che veniva affermato. 

Nella visione maschio centrica durata secoli le donne, tenute ai margini, non accedendo allo studio, non possedevano gli strumenti per far valere le loro capacità, le loro ragioni. A parte le donne di alto rango, e anch’esse con notevoli limiti.

Scriveva nel ‘500 la poetessa Modesta Pozzo de’ Zorzi: “/ se quando nasce una figliola al padre / la ponesse col figlio a un’opra uguale / non saria nelle imprese alte e leggiadre / al frate inferior né disuguale.  Modesta stupisce poi per la modernità, sembra una ragazza del nostro tempo, quando asserisce che lei appartiene solo a se stessa. Ma già prima altre voci si erano levate in tal senso, nel ‘300 Christine de Pizan: Ahimè mio Dio /perché non mi hai fatta nascere maschio?  .. / non mi sbaglierei in nulla / sarei perfetta in tutto / come gli uomini dicon di essere”. 

Purtroppo anche persone straordinarie prendono abbagli e più sono straordinarie più sono pericolose. Tra il V e il IV a. C.  Ippocrate e Aristotele, due mostri sacri, ci hanno penalizzate. Ippocrate il più grande medico dell’antichità, ci definiva fisiologicamente incomplete, incompletezza che si estendeva anche alla mente. Al tempo le autopsie erano vietate giudicate profanazione, pena la condanna a morte perfino, fino al XVI secolo. Quindi, privi di conoscenze anatomiche, si andava per ipotesi e fra esse c’era quella di un utero vagante, mutante, alla ricerca di zone umide del corpo da cui trarre umori, provocando stupore mentale, senso di asfissia. Ecco spiegato, perché le donne fossero tendenzialmente isteriche ed epilettiche. D’altra parte il termine isteria deriva da utero. Ci è voluta la prima guerra mondiale per liberarci da questo preconcetto, perché molti uomini tornati da quelle terribili trincee, mostrarono segni di isterismo. Ma ciò non era gradito al mondo accademico, e si preferì parlare di degenerazioni, di personalità deboli, eccezioni. Comunque se Ippocrate attribuiva perlomeno alla donna una natura attiva, Aristotele decretò che la donna era un essere passivo che riceve solamente, mentre l’uomo è l’essenza, colui che crea. Queste teorie ebbero strepitosa fortuna per secoli, anche grazie a Galeno medico ippocratico, e attraversarono il Medioevo e oltre. E dunque la donna ha vissuto socialmente appartata, senza una vera collocazione storica e senza diritti. Vittima di sofismi aberranti quali quelli che fosse qualcosa di mezzo fra l’essere umano e l’animale. O che non avesse l’anima. Tommaso d’Aquino nutriva forti dubbi a riguardo, con i risultati che possiamo immaginare. É solo da poco tempo che in medicina si studiano rimedi specifici per uomo e donna, per secoli essa è stata curata con terapie spesso inadeguate, o non curata affatto. La donna era imbarazzava se a palparla era un uomo, seppure medico, perché era l’intera società a giudicarla male. Per cui si consultavano le guaritrici, le erboriste, e questo la dice lunga su quanto grande fosse la sapienza della medicina empirica trasmessa da madre a figlia. Ma da questa pratica scaturisce l’accusa di stregoneria, in quanto provocava dubbi e dicerie, attribuendo a queste donne intenzioni malefiche, e si scatenò la caccia alle cosiddette streghe, che per la maggior parte erano povere donne ignoranti che cercavano un po’ di cibo. E le cercavano prevalentemente verso l’imbrunire, avendo indosso, (testimoniato da cronache dell’epoca) più che abiti, stracci, di cui si vergognavano. L’accanimento sfociò nella persecuzione sancita con bolla papale da Innocenzo VIII, nel 1484. E così quasi ogni settimana si assisteva al rogo in piazza di una povera donna trovata a cercare erbe. Orrore che durò fino ai primi dell’800 (1810 in Europa, 1830 nell’America latina). Mi chiedo perché non si accanissero contro gli stregoni. I maghi. E’ questo il divario. In un libro, il Malleus maleficarum del 1486, due domenicani tedeschi affermavano che il termine femina vuol dire colei che non ha fede. Fe – minus, dove minus ha valore più che riduttivo, di assenza; dunque per sua natura la donna è miscredente e attratta dai poteri occulti. Il medico Arnault de Villeneuve scriveva: “Con l’aiuto di Dio mi occuperò qui di ciò che concerne le donne, e poiché il più delle volte le donne sono delle bestie cattive, tratterò in seguito del morso degli animali velenosi”. Fondamentale fu l’azione di critica, sull’assurdità e la stupidità di tali pregiudizi, da parte degli illuministi; Voltaire si adoperò molto in tal senso.

In questo tipo di società la donna moriva presto, spesso di parto, ma altrettanto spesso di fatica, di sfruttamento, violenze. La vita scorreva in un ambito familiare ristretto, sottomessa al padre, al marito. A seconda della tipologia sociale si dedicava ad attività agricole, allevamento del bestiame; conduzione della casa, l’orto, gli animali da cortile, i bambini. Perfino in un terreno tanto personale come l’allattamento, se andava a balia, nell’assunzione dell’impegno, specie presso le istituzioni (brefotrofi) era rappresentata dal marito, definito balio, e  a lui andavano i proventi.

In quanto allo studio non esistevano leggi che le impedissero di studiare, ma la mentalità era tale che nessuna osava. Escludendo donne altolocate. Poi intorno al 1100 si registra una forma di sviluppo economico, la donna inizia a introdursi nel mondo lavorativo, e si creano le prime scuole elementari femminili; qualcuna prosegue, divenendo perfino docente, solo se sposata. Fa eccezione la medicina che era distaccata dalla università vera e propria e poi all’epoca era vietato a un uomo far partorire una donna, toccare le pudenda femminili. Quindi per un periodo la medicina fu trasmessa da padre a moglie, figlia, una consorteria privilegiata. Famosa fu la scuola medica salernitana, con tante donne medico, (la più famosa Trotula de Ruggero). Poi la marcia indietro. Le scuole furono chiuse. Per esempio, nel ‘600 un sacerdote veneto decise di aprire in parrocchia una scuola elementare per bambine; subito il vescovo gli intimò di chiuderla: “Le donne non devon né legger, né scriver, né balar”.  La misoginia è sempre dietro l’angolo. Il minorita Andrea di Resensburg paragonava le aspirazioni femminili allo studio e al lavoro indipendente, come a un superfluo volo di galline al di là dello steccato.

Ma la storia va avanti, nel ‘600 iniziano a diffondersi i giornali, ci sono donne giornaliste, si creano salotti letterari e le donne iniziano a scrivere pamphlet, diffondere le loro idee. 

Il ‘700 poi allarga gli orizzonti; siamo nel tempo dell’illuminismo che vuole chiarire tutto con il lume della ragione. Gli illuministi furono molto attenti al problema sociale, come la questione agricola, il commercio e altro. E la Toscana fu all’avanguardia con personaggi come il Bandini, il Tavanti, il Lami, il Montelatici che creò l’accademia dei Georgofili. Molto importante fu l’azione degli illuministi napoletani soprattutto grazie a Carlo III di Borbone e all’abate Antonio Genovesi che viene giudicato il più grande illuminista italiano. La loro azione viene a intersecarsi con uno sviluppo, mai stato prima, di tipo industriale. Masse di gente dalle campagne raggiungono le città; una urbanizzazione che, cambiando il ritmo di vita femminile, proiettato all’esterno della casa, ne modifica anche la mentalità. 

Tra i meriti dell’illuminismo è stato il comprendere che la società avrebbe funzionato meglio se si fossero equiparate almeno in parte le differenze economiche. Si era sempre ritenuto che poveri e ricchi appartenessero a mondi distinti. Mentre la verità è che il povero crea problemi che ricadono sul ricco suo malgrado. Se già solo pensiamo al fatto che le epidemie nascono sempre dal basso: poveri che andavano a morire davanti alle chiese, alle case, entrando a volte in putrefazione prima della sepoltura, ospizi stipati di gente infestata da insetti. Ed una minima parte di verità. Lo vediamo oggi con i migranti. La povertà come la ricchezza hanno effetti devastanti per la società nel suo insieme a causa di una circolarità perversa. Anche la questione femminile viene riconsiderata dagli illuministi, risultando chiaro che la tanto proclamata inferiorità dipende in realtà dalle restrizioni imposte. Il fiorentino Pelli Bencivenni scriveva: “L’educazione delle femmine è troppo trascurata … chi sa di qual progresso sarebbero capaci, se si coltivassero come gli uomini? Forse quei difetti che molte hanno, e che a tutte, quando non siamo uditi si rimproverano, sono colpa nostra che le vogliamo tenere in misera soggezione …”

Ma nell’800 si entra in fase di stallo. L’800, secolo rivoluzionario, il risorgimento vissuto anche con il contributo femminile, tenderà a ricollocare la donna nella veste riproduttiva e materna, e l’obbligo alla perfezione domestica in un clima già insofferente, provoca reazioni irreversibili, perché la donna che da sempre ha avuto una situazione giuridica penalizzante, non ha diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, non è ammessa ai pubblici uffici, deve essere autorizzata dal marito per gestire beni immobili, le è interdetto di frequentare scuole superiori e università, fino al 1874, e altro ancora, è intanto maturata, e non è in grado di sopportare oltre. Ha vissuto uno spiraglio di autonomia, di autogestione ed entra in un conflitto che influisce sul suo sistema nervoso; da qui l’isterismo. Inoltre sviene spesso; mai tanti svenimenti come nell’800, giudicati anch’essi fenomeni isterici, rapportati invece a fattori esterni ( …) In seguito, quando vedrà affermata la propria dignità di persona, oltre al diritto al lavoro e a uno spazio decisionale, queste forme svaniranno. Oggi la donna non sviene più, non ha crisi isteriche perché ha raggiunto un buon grado di consenso sociale, ha acquisito sicurezza. Fino a metà del secolo scorso pur essendo oramai chiaro che l’isteria è la conseguenza di un malessere psichico e non ha radici fisiologiche (Charcot, Freud), questo termine era ancora diffuso. La questione dell’isterismo è stata per secoli una forma di potere esercitata dall’uomo, che ha rallentato l’evoluzione sociale. Un esempio è la forte accelerazione che avvenne con la prima guerra mondiale, che spopolò la nazione di uomini e portò le donne a rimpiazzarli nelle più svariate mansioni e con grande abilità, anche se guardata a vista. Pensiamo a quando i giornali milanesi annunciarono terrorizzati che il giorno seguente una donna avrebbe guidato un tram, invitando i cittadini a non uscire di casa. Le donne tennero comunque testa e anche la regina Elena fu al loro fianco in questa lotta dei diritti.

A fare un passo indietro ci pensò il fascismo. Il teorico del fascismo Ferdinando Loffredo, affermando la superiorità maschile, scriveva ne La politica della famiglia “La donna deve ritornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica”. Non posso dilungarmi, pensiamo solo alla legge sul delitto d’onore e non solo.

Oggi la donna ha ottenuto la parità, non dovunque, e dove l’ha ottenuta deve spesso fare i conti con chi non l’accetta. Vorrei aggiungere però che la lotta per i nostri diritti non deve portarci a esagerare, a non superare il buon gusto e il bon ton. Perché un eccesso libertario e dominante alla fine è un auto goal. Con il rischio di sovvertire i poteri. E quindi squilibrio. Concludo con una riflessione sull’episodio della torre di Babele, nel libro della Genesi. E’ una simbologia. Ma ciò che molti studiosi affermano, è che Dio non accettò la torre di Babele in quanto espressione di un pensiero unico, di un potere unico. Quelli che la vogliono parlano tutti allo stesso modo, pensano tutti allo stesso modo, la torre è di per sé simbolo verticistico, di potere assoluto. E dunque scompigliare le carte, variare il linguaggio, pensarla diversamente, è in questa diversità che ci si evolve, nasce la creatività. Il linguaggio, lo sappiamo, interagisce con l’idea. Non a caso le dittature tendono a elementarizzarlo, banalizzarlo. Nell’altro, diverso da noi, ma che abbiamo come referente, come dialogante, troviamo una certa qual completezza, in quanto si attua la circolarità delle idee. E del resto il nostro pianeta è un inno alla diversità. Detto questo, rivolgo un invito a noi donne: non perdiamo le nostre peculiarità, sono essenziali. Dimostreremo così di essere all’altezza dei diritti che abbiamo raggiunto e di quelli che ci proponiamo di raggiungere.

*Gabriella Izzi Benedetti, scrittrice