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Antonio Tabucchi, a ottanta anni dalla morte

Il grande autore di “Sostiene Pereira” e fine traduttore di Fernando Pessoa viene ricordato da Verbumpress con un profilo dello scrittore Salvatore La Moglie che ne analizza la poetica e le tematiche facendone emergere anche l’aspetto di polemista

Antonio Tabucchi – che ha lasciato un grande vuoto nella vita culturale del nostro paese e non solo – non è autore facilmente collocabile in un movimento letterario, anzi sembra sfuggire a ogni facile classificazione. Quello che è certo è che egli è stato un grande sperimentatore e un grande intellettuale che, non negandosi alla polemica civile e politica più attuale, ha portato dentro di sé, facendosene quasi erede, quell’inquietudine, quell’insoddisfazione, quel senso di solitudine, di incertezza e di instabilità delle cose che gravano sull’uomo moderno, che erano stati tra i grandi temi dei poeti e degli scrittori del Decadentismo europeo tra ‘800 e ‘900. Temi cari anche a quel Fernando Pessoa che Tabucchi ha finemente tradotto e portato alla conoscenza del pubblico italiano. Ma su Pessoa e l’influenza che ha avuto sul Nostro ritornerò più avanti. Adesso vediamo, anche se schematicamente e in superficie, il percorso intellettuale di Antonio Tabucchi, del quale tanto si avverte l’assenza. 

Il nostro autore è nato ottant’anni fa il 24 settembre del 1943 a Pisa ed è cresciuto a Vecchiano nella casa dei nonni materni. A Pisa ha sempre risieduto quando non si è trovato altrove, per esempio a Firenze o in Portogallo, sue mete preferite. A Pisa ha studiato e dalla Scuola Normale Superiore è uscito con una tesi di laurea in lingua e letteratura portoghese, che ha insegnato alle Università di Genova e di Siena. Tabucchi ha diretto anche l’Istituto di Cultura Italiana a Lisbona. Ha  svolto fino alla fine l’attività di scrittore a tempo pieno e collaborato a giornali e riviste letterarie e culturali come, per es., Micromega

Il suo esordio letterario risale al 1975 con la pubblicazione del romanzo Piazza d’Italia, a cui è seguito nel ’78, Il piccolo naviglio. Nel 1981 è uscita la prima raccolta di racconti Il gioco del rovescio col quale ha vinto il premio Luigi Russo. Nell’83 è la volta del romanzo breve Donna di Porto Pim, mentre nell’84 quella della novella di viaggio Notturno Indiano che gli è valso, nel 1987, il premio francese Mèdicis Etranger. Da questa novella è stato anche tratto l’omonimo film del regista francese Alain Corneau. Nel 1985 vince il Premio Comisso per i racconti Piccoli equivoci senza importanza. Nell’86 ha pubblicato Il filo dell’orizzonte; nell’87 le raccolte di racconti I volatili del Beato Angelico; dell’88 è il testo teatrale I dialoghi mancati; nel ’90 scrive Un baule pieno di gente; nel ’91 L’angelo nero; nel ’92 Requiem e le raccolte di racconti Sogni di sogni. Nel ’94 arriva il capolavoro Sostiene Pereira che gli ha fatto vincere il Premio Campiello, il Premio Viareggio-Rèpaci, il Premio Scanno e il Premio dei Lettori. Dal romanzo è stato tratto, dal regista Roberto Faenza, il film omonimo interpretato magistralmente dall’indimenticabile Marcello Mastroianni. Nel 1997 è uscito il romanzo La testa perduta di Damasceno Monteiro e, alla fine dell’anno, La gastrite di Platone pubblicato in Francia. Nel 2001 è la volta del discusso romanzo epistolare Si sta facendo sempre più tardi, mentre nel 2003 pubblica Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori. Infine, del suo vasto repertorio letterario ricordiamo il lungo monologo Tristano muore, del 2004, Il tempo invecchia in fretta, del 2011,e, postumo, Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema , del 2013.

Che Tabucchi (scomparso a Lisbona il 25 marzo del 2012) sia un grande scrittore e scrittore di grande pubblico credo sia cosa ormai assodata. La sua fama all’estero, oltre che in Italia, è attestata anche dai più recenti riconoscimenti. Nel 1998 ha ricevuto il premio europeo di letteratura Aristeion; nel ’99 il premio dello stato austriaco per la letteratura europea e il premio Nossack dell’Accademia Leibniz di Mainz.

Dicevo, all’inizio, che il nome di Tabucchi è legato a quello del grande scrittore portoghese Fernando Pessoa, che egli ci ha fatto conoscere. Merito questo non secondario dell’attività di Tabucchi, il quale ha scritto anche un testo ispirato, appunto, al grande portoghese: Gli ultimi tre giorni di Ferdinando Pessoa che è del 1996 e che vuole esserne una ricostruzione immaginaria. Su Pessoa il Nostro ha scritto anche interessanti saggi e questo dimostra come sia notevole l’ascendente del Portoghese su di Lui. Nella sua Storia generale della letteratura italiana, Walter Pedullà scrive che: «…dalla poetica dell’eteronimia di Pessoa, Tabucchi trae quella continua attenzione al personaggio narrativo come doppio, alter ego di una pluralità, veicolo di conoscenza dell’altro da sé, che è il fondamento di tutta la sua narrativa. Per questa scrittura all’interno di percorsi intertestuali che usano la tradizione modernista come grande contenitore di strutture narrative attualizzate in sempre nuove combinazioni Tabucchi ha meritato la definizione di scrittore postmoderno»

E più avanti Pedullà scrive ancora che «la forza» di certi racconti del Nostro «sta nel mettere alla prova una poetica che Tabucchi ricava dalla lezione dell’eteronimia di Pessoa: usare cioè la finzione narrativa come uno strumento moltiplicatore del proprio io, come un camerino di teatro in cui lo scrittore esce dalla strettoie del proprio ego, inventa un altro personaggio e si trasferisce in lui. La finzione narrativa come zona franca in cui lo scrittore può diventare altro da sé: “infatti l’eteronimia di Pessoa rimanda alla capacità di vivere l’essenza di un gioco: non ad una finzione ma ad una metafisica della finzione”. E’ l’inizio di un diverso atteggiamento verso il reale. Il rapporto che Tabucchi stabilisce all’inizio degli anni Ottanta con il modello dell’eteronimia pessoiana è duplice: da un lato l’io diventa molteplice e vuole essere rappresentato attraverso le figure del rovescio, del doppio, della scissione tra corpo e spirito. Non c’è una perdita di identità: i personaggi di Tabucchi non sono smarriti negli uno nessuno e centomila di pirandelliana memoria, ma hanno la precisa volontà di gettarsi in un’altra identità. Non a caso Tabucchi scrive una pièce teatrale, Il signor Pirandello è desiderato al telefono, in cui Pessoa immagina di dire a Pirandello che “la più nobile aspirazione è di non essere noi stessi, o meglio è esserlo essendo altri, vivere in un modo plurale, com’è plurale l’universo”. E’ la precisa volontà di potenziare in una pluralità la propria individualità. Dall’altro lato, l’eteronimia pessoiana conduce Tabucchi a una ricerca sull’ontologia dell’atto di scrittura: un continuo bisogno di stabilire cosa c’è dentro la cornice del racconto e cosa da questa finzione rimanda al fuori, alla conoscenza della realtà. 

La produzione narrativa di Tabucchi degli anni Ottanta è tutta caratterizzata da una forte riflessione metanarrativa che con il romanzo breve Notturno Indiano si realizza nella metafora del viaggio. Già in Donna di Porto Pim (1983) l’io itinerante di Tabucchi si era messo alla prova raccontando frammenti di un viaggio nelle Isole Azzorre: ormai del tutto abbandonata la veste di romanziere onnisciente, ora è un pellegrino in cerca di un altrove teorico e plausibile, dove poter esercitare la propria “disponibilità alla menzogna”,  e ricorrere al “vecchio vizio di spiare le cose dall’altra parte”.  Con Notturno Indiano (1984) lo spirito nomade ed eteronimico di Tabucchi dà i risultati migliori. C’è in questo romanzo breve la matura consapevolezza di una scrittura narrativa che elabora i propri sottotesti in uno stile asciutto ed essenziale (…)».

 Per Tabucchi la letteratura è «qualcosa che coinvolge i desideri, i sogni e la fantasia» (le parole sono sue) ma dentro c’è pur sempre la realtà, anche quella politica, della povera politica italiana dell’era del berlusconismo, così, da lui, tanto avversata. C’è un Tabucchi polemista, intellettuale engagé che meriterebbe una seria e profonda riflessione che qui non è possibile, un Tabucchi che Andrea Bajani, in un articolo su La Repubblica del 21 ottobre del 2018, ha giustamente definito l’ultimo scrittore che tirò il potere per la giacca. In una intervista telefonica concessa all’Unità del 19 agosto del 2011, partendo dall’ amara domanda: «Ti ricordi com’era bella l’Italia?», lo scrittore invitava a riflettere sulla parola disincanto e  sulla sua etimologia: «Come tutti i regressivi, indica la mancanza o la perdita di qualcosa. Se dispiacere è perdita di piacere, disincanto è perdita di incanto…», e subito dopo così spiegava: «(…) Se partiamo dall’idea che l’Italia, o meglio, la maggioranza degli italiani è rimasta per troppi anni letteralmente “incantata” da un signore chiamato Silvio Berlusconi, va da sé la necessità che l’incanto o incantesimo si dissolva. Quanto al rischio di malumori diffusi che diventano cinismo, indifferenza, rassegnazione, si possono spiegare con una sensazione a volte legittima di impotenza. La sensazione che non c’è niente da fare, che il potere non è nelle nostre mani. Non viene forse da questo stato d’animo personale e collettivo l’indifferenza al centro del romanzo con cui, nel 1929, esordì Alberto Moravia? Nella vita civile e politica, la freccia che dà la direzione al disincanto non dipende solo dai disincantati, ma anche da chi li rappresenta. …».  

E faceva «un esempio concreto»: «Prenda le migliaia di giovani che nel luglio del 2001 hanno affollato Genova per manifestare contro il capitalismo impazzito, lasciato a briglie sciolte: quei giovani non erano rassegnati. Protestavano contro una forma selvaggia di depredazione della società, difendevano un’alternativa. Se però dieci anni dopo si accorgono che chi li ha pestati a sangue è stato promosso, ha fatto “carriera”, è naturale che il disincanto possa schiacciarli. Ma la colpa non è loro: è dei massacratori e di chi li ha promossi. Ho scritto anni fa che se essere italiani significa digerire la notizia che a Genova ad uccidere Carlo Giuliani sia stato un calcinaccio, dismetto volentieri questa italianità. Sulle vicende di quell’estate di dieci anni c’è un libro molto bello di Roberto Ferrucci, intitolato Cosa cambia. Manca il punto interrogativo, e questo non è un dettaglio trascurabile: lo scrittore dà l’allarme, denuncia, ma è come se dicesse: non facciamoci più domande, tanto…»

E, più avanti, così proseguiva sui guasti e sulle deficienze della classe politica italiana: «Le crepe che ormai mostra questa sorta di regime sono grosse, profonde. Ma il fatto che un regime crolli, non comporta di per sé un cambiamento. Cosa viene dopo non lo so e non riesco a sbilanciarmi su previsioni ottimistiche. Faccio un esempio: la grave e dibattuta questione del conflitto di interessi non è stata risolta ovviamente dal governo in carica, ma nemmeno dal precedente governo di centrosinistra. Dalla fine di una stagione politica può derivarne un’altra simile, in cui restano intatti i vizi di fondo. Se il terreno resta marcio, se non lo si cura in modo radicale, le fondamenta su cui si costruisce qualcosa di buono sono sempre in pericolo»

Quanto agli italiani, secondo Tabucchi, non sono affatto rassegnati, anzi ciò che a loro manca è uno sprone, qualcuno, un leader magari, che li accenda, che li infiammi, mentre il dito accusatorio resta sempre puntato contro la classe politica: «(…) Gli italiani non sono arresi: basterebbe dargli un fiammifero perché diventi una torcia. L’accento lo sposterei piuttosto sulla classe dirigente. Quali sono i valori, gli ideali che essa rappresenta? Lei riesce a distinguerli? E mi domando ancora: questa classe dirigente ha una percezione della realtà, un contatto con la realtà concreta, tale che la renda in grado di costituire una guida per i cittadini? Il rischio è di scaricare su quella che viene chiamata “la gente” una responsabilità che forse non ha, o non del tutto. È facile cadere in un qualunquismo all’incontrario che vorrebbe gli italiani tutti cialtroni, disonesti, indifferenti, ma sarebbe preoccupante e ingiusto, come qualunque giudizio sommario su un popolo intero».  

Domanda: «La letteratura, l’arte in genere possono essere un buon antidoto al disincanto»? Questa la risposta condivisibile di Tabucchi:«Sono convinto che, nonostante la stagione di crisi politica ed economica, la produzione artistica italiana degli ultimi anni – letteraria, cinematografica – sia di ottima qualità, e che non sfiguri al confronto con quella di altri paesi europei. Anzi. Quanto poi questa qualità artistica possa avere influenza su una situazione difficile dal punto di vista civile e morale, non so. Gli artisti sono sempre piccoli David di fronte a un enorme Golia. Non sono loro a far cadere i regimi, ma vivendo nell’Attuale, nel loro tempo, nel loro “ora”, se non altro ne osservano le storture; se non altro, tentano di capire il perché e il quando delle cose, di ciò che non va. E capire è già molto. Con un cerino gli artisti illuminano l’oscurità, in tempo per mostrare a chi abbia occhi quando il sentiero percorso è sull’orlo dell’abisso»…       

E, dunque, cosa fare? Bisogna comunque vivere e scrivere, nel procedere e proseguire in questa illusione che è la vita stessa, che ci prende e ci porta per le sue misteriose vie: «E intanto noi viviamo, o scriviamo, il che è lo stesso in questa illusione che ci conduce» (in Racconti, Feltrinelli).

Il mistero che domina la vita; l’enigmaticità dell’esistenza; la vita come rebus; la relatività e l’instabilità di ogni aspetto del reale; la molteplicità degli io, la doppiezza e l’ambiguità della personalità; l’inconscio e i lati oscuri della nostra psiche; microstoria e macrostoria; realtà e finzione; l’equivoco come metafora del mondo; l’assurdo destino dell’uomo; la violenza della Storia; la precarietà e l’incompiutezza della vita umana; il gioco del dritto e del rovescio; la lettura della realtà al rovescio e il rovescio stesso come forma di conoscenza, come punto di vista diverso rispetto alla realtà; il sogno come pure una certa surrealtà; la solitudine e la disperazione; la memoria dell’infanzia; la presenza ossessiva della morte; l’insonnia e la nevrosi dell’uomo moderno; la denuncia dei mali causati da chi ha governato e governa l’Italia…: tutti questi e altri ancora sono i temi e i motivi ricorrenti nella produzione narrativa di Tabucchi che, anche per un certo virtuosismo metanarrativo, è stato giustamente definito – come si è visto – scrittore postmoderno. E lo è – va detto – in maniera veramente originale, attraverso una prosa limpida, esatta, essenziale nella quale prevalgono il distacco ironico e un quasi impercettibile e sottile humor.

*Salvatore La Moglie, scrittore