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Annalisa Angelone, Diana Spencer. Morte, mito e misteri (Polidoro editore)

Tante volte è accaduto che la mafia abbia coperto gli assassinii d’imprenditori o funzionari dello Stato, facendo passare quelle morti come esiti di vicende passionali, tradimenti coniugali. Ce lo ha spiegato Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta (1961), descrivendo tutti i tentativi di depistaggio, lettere anonime falsi testimoni minacce e intimidazioni, messi in atto dal mandante dell’omicidio dell’imprenditore Salvatore Colasberna affinché il capitano dei Carabinieri orientasse le proprie indagini sulla pista del delitto passionale e tralasciasse quella degl’interessi dei mafiosi per gli appalti dei lavori pubblici. 

E se strategia analoga fosse stata adottata anche per coprire le reali ragioni della morte della principessa Diana? È il dubbio che resta dopo avere letto il saggio di Annalisa Angelone, Diana Spencer. Morte, mito e misteri (Polidoro), che sin dalle prime pagine si chiede: «Sono tutti fotografi coloro che a Parigi armati di flash e apparecchi fotografici danno la caccia a lei e a Dodi fra il 30 e il 31 agosto? Alcuni, in fuga dal tunnel, non sono mai stati rintracciati».  

Nell’estate del 1997 Diana era all’apice della popolarità, la «più grande “influencer” del Novecento». Ma davvero Casa reale e Governo britannico rabbrividivano soltanto per la relazione di Diana con il nuovo facoltoso amante egiziano? Per un divorzio dell’erede al trono, sempre più inevitabile? Per una fantomatica gravidanza della principessa del Galles? Oppure vi erano in gioco ben altri, concreti e corposi, interessi economici e militari?

«Due verità» scrive Annalisa Angelone «si contrappongono sulla morte di Diana Spencer: quella ufficiale e quella “dissidente” delle inchieste giornalistiche».

Bastano già queste poche notazioni per comprendere bene che quello di Annalisa Angelone non è l’ennesimo libro di rievocazione, nostalgica e consolatoria, d’una protagonista della cronaca rosa ancora capace, a ventisei anni dalla morte, di catturare l’attenzione delle lettrici dei rotocalchi femminili. Si tratta, invece, di un saggio corposo e documentato che per la prima volta pone in relazione, con un confronto continuo e serrato, le due verità che coesistono e i dubbi che permangono, dopo due inchieste (una francese e una inglese) e un processo durato quattro anni e concluso nel 2008 con una sentenza di ‘omicidio colposo’. Da un lato, dunque, la tesi dell’incidente automobilistico causato dallo stato di ubriachezza di Henri Paul, autista alla guida dell’auto su cui viaggiavano Diana e Dodi Al-Fayed, con il conseguente cattivo controllo dell’autovettura anche in relazione ai tanti «veicoli che seguivano». Dall’altro, la tesi che la morte di Diana sia strettamente correlata alla nuova campagna umanitaria contro le mine antiuomo, da lei intrapresa alcuni mesi prima con un viaggio in Angola (Gennaio 1997) e portata avanti preannunciando la costituzione di un dossier sulle aziende britanniche produttrici di quegli ordigni, allo scopo di dimostrare, come ha dichiarato al processo Simone Simmon, che «governo inglese e personaggi pubblici di alto rango traevano profitto dalla loro proliferazione in Angola e in Bosnia».

Insomma, un dossier ‘esplosivo’, che sarebbe andato ad aggiungersi al già clamoroso servizio realizzato in Angola quando, inquadrata dagli obiettivi di fotografi e telecamere di mezzo mondo, aveva attraversato un terreno solo parzialmente sminato: «La principessa» ricorda Annalisa Angelone, «iniziò a camminare lentamente. Indossava pantaloni color sabbia, una camicetta bianca e come unica protezione un casco trasparente in viso. Eppure il pericolo era concreto. Dominando la paura arrivò all’altro lato del campo dove due fotografi, a mo’ di scherzo le dissero: “Madam, le immagini non sono venute bene, può ripetere, per favore?” Lei sbiancò, ma ripeté l’intero percorso».   

L’industria bellica britannica era a quel tempo una delle maggiori del mondo, seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Così, alla principessa che si era messa contro gli interessi di persone potentissime non tardarono d’arrivare attacchi denigratori e minacce. Sempre secondo la testimonianza resa al processo da Simone Simmons, Nick Soames, allora ministro delle Forze Armate ed esponente del partito conservatore, telefonò alla principessa esprimendosi in questi termini: «Non immischiarti in faccende che non conosci. Non sai mai quando un incidente può capitare». Al processo, il Ministro negò di avere mai minacciato Diana e sostenne di non averle proprio telefonato. Due verità contrapposte che sarebbe stato possibile appurare con un puntuale riscontro dei tabulati telefonici. «Nessuno» osserva Annalisa Angelone, riportando le inchieste di altri prestigiosi giornalisti investigativi, «ha mai verificato quei tabulati».

E poi, ancora, le tante questioni legate agli esami condotti sul sangue dell’autista: i livelli molto elevati di monossido di carbonio, l’affidabilità dell’alcol test effettuato dai francesi. La morte e i misteri del paparazzo James Andanson, la sua reale presenza sulla scena dell’incidente, le sue false testimonianze, il suo alto tenore di vita. Il retroscena, poco noto al grande pubblico, della clamorosa retromarcia della giuria del processo inglese, la quale nel 2008 ritiene inesatto affermare che l’incidente fu causato da Henri Paul e dai “paparazzi” e sostituisce questo termine con l’espressione di “veicoli che seguivano”. Un’espressione molto più generica e meno assertiva sulla natura dei personaggi presenti in quella tragica vicenda.   

Insomma, una ricostruzione puntuale e puntigliosa di tutte le negligenze, le incongruenze, le omissioni e le contraddizioni che hanno segnato la vicenda investigativa e processuale seguita alla morte di Diana Spencer. E sono proprio la precisione dei riferimenti alle fonti e l’ampia documentazione bibliografica sottesa a distinguere nettamente il lavoro di Annalisa Angelone dalle vaghe teorie complottiste e a farne, invece, un affidabile strumento di conoscenza e riflessione. 

*Raffaele Messina, scrittore