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Adolescenza e identità

Una volta, tanto e tanto tempo fa, in un piccolissimo regno di questa terra nacque una principessina bella e buona cui fu dato nome di Artemisia.

E la nostra principessina crebbe, come sempre succede, raccogliendo le cose che la circondavano quando era piccola per riempire il sacco delle sicurezze che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. E quando arrivò il momento di arredare l’angolo della fiducia in se stessi, che è quello che ci aiuta a capire chi siamo e a usare le nostre risorse, Artemisia cominciò a preparare il ritratto da appenderci e, per essere ben sicura che fosse fedele, prese ad andare in giro per il suo piccolo regno chiedendo a tutti, come in genere fanno i principino, “Chi sono io?  Che cosa so fare? E’ vero che i miei occhi sono belli? E’ vero che ho lo sguardo intelligente? E’ vero che sono capace di fare delle cose?” e così via, fino a avere abbastanza risposte da poter iniziare a fare questo famoso ritratto per interpellarlo ogni volta ce aveva bisogno di sapere chi era e se anche lei valeva qualcosa.

E il re e la regina, che erano quelli a cui lei lo chiedeva più spesso, cercavano di risponderle ogni volta, anche se non sempre ci riuscivano, forse perché il loro stesso angolo della fiducia in se stessi era rimasto un po’ fragile, quando anche loro erano bambini e non avevano potuto riempire completamente il sacco delle loro sicurezze.

E inoltre, un giorno imprecisato in cui lei era ancora molto, molto piccola, in quel paese successe qualcosa di particolare anche se la storia non dice esattamente che cosa, perché non tutto viene trascritto nei registri ufficiali e si può quindi conoscere, cosicché il re e la regina furono molto impegnati intorno alle gravi preoccupazioni, che erano entrate nella loro vita, e non ebbero più tanto tempo da dedicare ad aiutare la principessina a mettere le risposte che le servivano nel suo bagaglio di vita.

Fu così che il ritratto che la principessina aveva iniziato a fare rimase incompiuto in una cornice vuota e lei dovette cominciare ad uscire dal castello per proseguire la sua ricerca.

Andò a finire che, a poco a poco, Artemisia prese l’abitudine di porre questa sua domanda al centro di ogni suo interesse, perché il bisogno da cui sorgeva era forte e vigoroso, tanto che ogni volta che incontrava qualcuno la nostra principessina gli chiedeva subito “Chi sono io? Che cosa voglio? Che cosa so fare?”.

E siccome era una principessina bella e intelligente tutti le davano delle buone risposte. Fu così che in mancanza di un ritratto, si abituò ben presto a usare gli altri come uno specchio che riflettesse il suo viso per dirle chi era e se valeva qualcosa, oppure proprio niente, come invece a volte temeva.

Col passare del tempo, la nostra principessina non solo rinunciò a finire il suo ritratto, ma impegnata com’era, non poté neanche aprire il cassetto delle sue risorse per sapere quante erano. Infine Artemisia si ritrovò prigioniera degli altri senza neanche saperlo, e fu costretta a cercare di fare le cose sempre meglio e a mettersi in mostra per essere ben sicura di attirare i loro sguardi e avere le loro risposte.

Passarono così gli anni e Artemisia viaggiava per la vita credendo di essere libera, mentre in realtà era prigioniera di un’immagine riflessa, che incessantemente inseguiva nello specchio degli altri. E allora quando loro le facevano i complimenti per tutto quello che sapeva fare, la nostra principessina era proprio a suo agio, perché in quel caso l’immagine riflessa coincideva proprio con la cornice vuota del suo angolo, ma quando da fuori le venivano delle osservazioni o delle critiche o semplicemente dei pareri diversi dal suo, cadeva profondamente in crisi e si sentiva abbandonata, sola senza più un’immagine neanche riflessa, perché quella che gli altri le rimandavano non la sentiva sua.

E quando siamo soli e abbandonati da tutti, anche dalla nostra immagine, stiamo proprio molto, anzi moltissimo male, perché non sappiamo neanche chi siamo e abbiamo persino paura di noi stessi, come di tutte le cose che non conosciamo.

In questo modo Artemisia camminava per la vita e ogni tanto si arrabbiava moltissimo con gli altri quando pensava che fossero loro a portarle via la sua immagine, perché se ne andavano oppure perché gliene restituivano una di sé che non coincideva con la sua cornice vuota. 

“E’ colpa degli altri!” pensava allora tra sé: “ Non ci si può proprio fidare di loro! Sono io che sono stupida a pensare di poterlo fare!”.

(liberamente tratto da: A. Marcoli, Il bambino arrabbiato, Mondadori, 1996)

“L’educazione deve quindi cercare una via

 fra Scilla del lasciar fare e 

Cariddi del divieto frustrante”

(Freud)

“Torniamo alla pratica. 

Ho già detto che vostro figlio

non deve ottenere nulla 

per il semplice fatto che lo chiede, 

ma solo perché ne ha bisogno, 

né deve agire per obbedienza, ma per necessità.

Le parole obbedire e ordinare saranno dunque

proscritte dal suo vocabolario, 

e ancor più quelle di dovere e di obbligo; 

ma quelle di forza, di necessità, d’impotenza 

e di costrizione devono invece 

occupare in esso un grande posto”.

(Rousseau, L’Emilio)

I genitori: i primi educatori

La famiglia, la società, educatori devono sentire l’impegno e la responsabilità della propria funzione educativa.

“Nessuno è un esperto di educazione quando si tratta dei propri figli”.(Kris)

“Volendo essere troppo buoni” i genitori o gli educatori depongono il fardello sulle spalle del bambino.(E.Fenichel)

> Educazione della volontà: educare ad essere padroni delle proprie azioni, mantenendo la propria identità orientata su motivazioni intrinseche e non su influssi esterni.

> Educazione alla capacità di ascolto: educare all’ascolto dell’altro che parla, anche di sé e dei propri bisogni, senza avere paura del silenzio e della riflessione.

> Educazione al pensiero critico: ciò implica la capacità di trasmettere ai ragazzi la competenza di vagliare le proposte prima di accettarle, di sconfiggere il pregiudizio che impedisce di leggere la realtà in un’ottica di oggettività, educando altresì i giovani alla pluralità dei punti di vista.

> Educazione alla libertà: non sventolandola, ma accompagnando i ragazzi a conquistarla attraverso l’esercizio della libertà.

> Educazione alla gestione del conflitto:  far comprendere che il conflitto va accettato e vissuto come strumento per la crescita e la relazione dialettica con gli altri. Il conflitto deve emergere per rendere parlabili più cose al fine di trovare la via di negoziazione con se stessi e con gli altri. 

> Educazione alla legalità: perché si possa capire che senza il rispetto di regole condivise non è possibile nessun tipo di convivenza sociale e di gruppo, e che l’osservanza delle norme aiuta ad essere liberi.

L’autostima è uno degli elementi chiave nel processo della costruzione dell’identità.

E’ evidente che per autostima si intende il giudizio che il soggetto ha di se stesso, attraverso un atteggiamento positivo o negativo di sé, nel contesto culturale in cui sviluppa propri criteri di valutazione.

All’inizio del secolo, William James e di Mead, attraverso le loro tesi, hanno messo in luce che l’autostima è un atteggiamento nei confronti di se stessi che, dal punto di vista qualitativo, è proporzionale al modo in cui gli individui si sentono adeguati agli ambiti in cui per loro è importante il successo.   

L’autostima interpersonale dei ragazzi è influenzata dalle reazioni delle altre persone, dal grado di positività e di fiducia, in cui tali rapporti si instaurano.

L’evoluzione dell’autostima avviene in diversi contesti ambientali nei quali sia i bambini sia gli adolescenti agiscono più o meno attivamente, dove le relazioni interpersonali, il controllo sull’ambiente, l’emotività, la vita familiare, il vissuto corporeo ne sono i principali aspetti.    

Il problema, oggi, è abbastanza complesso e trasversale al tessuto sociale, specialmente  quando gli adolescenti trovano la ragione della propria autostima in comportamenti devianti e distruttivi; infatti, giovani che hanno elaborato un’identità “altro da sé” in situazioni di vita frustranti e culturalmente poveri, non avendo potuto organizzare criteri di giudizio fondati su valori etici, non riescono a strutturare una reputazione positiva, quindi una forte autostima, a partire dalla loro capacità di mettere in atto comportamenti ribelli, sfrontati e di sfida nei confronti delle regole sociali. 

La stima di sé dipende soprattutto dal rapporto con gli altri, per questo motivo nel momento in cui il soggetto non si sente legittimato nello spazio di relazione, anzi c’è un muro fra il “sé e gli altri”, è naturale che vada a cercarsi un modello di legittimazione in gruppi a rischio e socialmente pericolosi.

Quale,dunque, la funzione educativa?

In sintesi, bisogna far sentire che si ritiene legittima la ricerca di sé e che si accetta l’esistenza di altri codici di espressione; in particolare quello non verbale, cercando di evitare tre cose:

1. Organizzare i contenuti della sperimentazione del tempo libero: sport, discoteca o altro, per evitare sovrapposizioni dall’esterno, annullando così l’elemento di autodeterminazione

2. Un eccesso di pedagogismo, vale a dire, evitando tutte quelle espressioni che enfatizzano l’elemento seriosità; che non valorizzano il ruolo di partecipazione e di protagonismo che gli adolescenti hanno nell’attività scelta come momento di sperimentazione e di costruzione di identità.

3. Proporre schemi cognitivi che neutralizzano automaticamente l’elemento di sperimentazione, attraverso il quale il giovane affronta i compiti di sviluppo. 

*Laura Margherita Volante, sociologa