Dall’Aquila la rivoluzione POP del mandolino
Lo strumento barocco si dà al rock, spinto dal virtuosista Francesco Màmmola, Conservatorio abruzzese
La giustificazione l’ha ormai fissata l’adagio popolare: «Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna». Così, il mandolino, senza dismettere del tutto il nobile blasone di origine barocca, ha saputo felicemente incrociare l’innovazione, con l’obiettivo di risalire il crinale dell’ormai perenta diffusione concertistica. Sta avvenendo, con particolare convinzione, all’Aquila, secondo la programmazione didattico-formativa del conservatorio “Alfredo Casella”. Dove Francesco Màmmola (Pescocostanzo, 1989), giovanissima star europea del mandolino, non disdegna, nei suoi corsi accademici, di esporre alle più recenti contaminazioni rock la consueta timbrica acuta dello strumento. Di più, l’artista ne ha già consolidato l’adattamento elettrificato, ricorrendo con pick-up magnetici a pochissime novità tecniche, indispensabili alla sostenibile rigenerazione pop dello strumento-base. Quel che ha incentivato l’audience accademica, richiamata, peraltro, dall’esclusività dell’insegnamento. Cattedre di mandolino sono, infatti, nell’ordinamento di una quindicina dei circa cento conservatori italiani. Precisando, comunque, che L’Aquila è l’unica istituzione del Centro-Italia ad assicurare regolare formazione didattica nella specialità strumentale. Anzi, fino a qualche anno fa, nemmeno a Napoli, la patria riconosciuta dell’omonimo mandolino, il conservatorio “san Pietro a Majella” (insomma, quel Celestino V – il pontefice del dantesco «gran rifiuto» – venerato proprio all’Aquila, dove riposano le spoglie nella monumentale badia di Collemaggio) aveva un corso specifico, come non c’è tuttora nemmeno a Roma o in tantissimi altri conservatori, dove la disciplina tace in assenza appunto di iscrizioni.
D’altronde, il conservatorio aquilano inaugurò i suoi programmi nel 1967 come costola del “santa Cecilia”, ma già l’anno successivo riuscì, con pieno riconoscimento statale, a ritagliarsi l’autonomia funzionale, grazie all’efficace intrapresa dell’allora gruppo di “Nuova Consonanza”, esponenti dell’avanguardia, riparati ad un’ora dalla capitale – la distanza, appunto tra Roma e il capoluogo abruzzese – forse per esportare in provincia i loro propositi di aggiornati orizzonti musicali, tentando di ampliare il panorama della loro rivoluzione concertistica. Perché primo e longevo direttore artistico del conservatorio aquilano fu Gherardo Macarini Carmignani. Quando fu chiamato anni dopo ai vertici del “G. Rossini” di Pesaro, a succedergli arrivò in Abruzzo un sodale. Quel che incardinò 56 anni fa all’Aquila una sorta di avamposto artistico; una specie di isola sessantottina della sperimentazione musicale colta, che ruotava intorno a nomi eccelsi della letteratura cameristica e non solo: Domenico Guaccero, Franco Evangelisti, Fausto Razzi, Goffredo Petrassi. Anche se l’intitolazione del conservatorio aquilano ad Alfredo Casella fu un debito di riconoscenza nei confronti sia del “santa Cecilia” sia del musicista eponimo, intimo di Gabriele d’Annunzio e di altri illustri artisti dell’Abruzzo fin–de-siècle.
Insomma, spinta propulsiva,allora; innovazione, invece, identifica oggi la riabilitazione pop del mandolino nel conservatorio aquilano. Per promuoverla, il suo mentore è convinto a battere il tamburino social. Più cresce il circuito di utenti di videomusicali più si apprezza, constatandola, la versatilità del mandolino rock. Così diventa più incisivo, negli allievi, il gradimento, alla base di una ripresa empatica dello strumento. Il prof. F. Màmmola è davvero convinto che la tecnologia mediale può schiudere ulteriori spazi di fruizione estetica ed esecutiva del mandolino. Ed è questo il solco che accoglie, per lo più, la qualità del servizio offerto, all’Aquila, dal conservatorio. Come spiega il suo direttore, l’organista Claudio Di Massimantonio (Teramo 1959), ripagato dall’attenzione degli enti locali, altrove felici di lasciare, per contro, al solo ministero dell’Università e della Ricerca l’onere del sostegno economico ai conservatori italiani.
Stona, comunque, l’esclusione del mandolino dalla tabella degli strumenti didattici, nell’ordinamento della scuola media inferiore. In 13 anni nessuna voce si è levata, nel nostro Paese, a fare giustizia contro l’isolamento, che ha incautamente condannato al ruolo di cenerentola il mandolino. Perché quest’artefatto culturale è per davvero tipicamente italiano, nonostante analoghi strumenti siano inscritti a pieno titolo nella tradizione artistica e sociale di Grecia (bouzouki), ad esempio; Portogallo (bandolim); Turchia; Americhe. D’altronde, da noi ci sono perfino versioni produttive, come dire, regionali: il mandolino milanese, settentrionale o lombardo; quello genovese; il romano, pur nella speciale primazia del mandolino napoletano con le sue 4×2, in riferimento al quartetto di doppie corde, che caratterizza la modulazione delle studiate sonorità. Rimandi cantabili, prevalentemente delicati, espressivi ed argentini, fondamento fluidificante per la resa del tremolo, vero e proprio costrutto armonico, impostato sull’associazione di fantasie esecutive, secondo nitore di impasti e di fraseggio. Atmosfere sonore, ricche di scalabilità, suadenti e lucide come impone la musica colta, eseguita con il mandolino classico, sicuramente per superesigenti, se si sta al modesto nucleo di corsisti dei nostri conservatori.
Ma, all’Aquila, l’insegnamento, tenuto dal prof. Fabio Giudice (Roma 1958), genio del mandolino classico, ha prodotto paradossalmente un’eccellenza del mandolino pop: Màmmola, appunto. L’allievo, come emancipatosi dall’originario corpus didattico, ricompreso – non abiurato – nella personale piattaforma di aggiornato profilo professionale. Vera e propria estensione del corredo di base, per articolare nuovi disegni formativi ed incanalare suggestioni e visionarietà. Tutto quanto, reso possibile dalle identitarie differenziazioni strumentali, ammesse per ciascun tipo di mandolino: quasi quante le plurime personalità espressive e le distinte fenomenologie interpretative: dalle sonate più particolari, ad es., di Vivaldi, Haendel, Mozart, Mahler, Beethoven, Paisiello perfino Schubert, alle scommesse trasformative di brani pop, nella condivisione del comune obiettivo di far uscire dal confino il mandolino; di farne evaporare l’improvvida sottovalutazione di strumento di nicchia.
Perché – si cita spesso – il famoso compositore Hector Berlioz (1803-1869), del mandolino, ha riconosciuto l’assortito bouquet «piccante, spiritoso, originale» ovvero la prismatica riflessività del reale. Quel che testimonia la consistente energia comunicativa dello strumento: quasi un lacerto antropologico, che ripara ogni ferita interazionale. Accade questo quando l’immaginazione estetica dell’offerta al mandolino – strutturata tra ispirazione del compositore e fenomenologia dell’esecutore o della band – sa insinuarsi nelle pieghe dell’intima emozionalità dell’ascoltatore. Ed è qui tradizione e innovazione del mandolino, dimostra forse l’opera del prof. F. Màmmola. In quest’intersezione tra noto e scoperta; transito e sosta; déjà vu ed orizzonte verso la musica che include nello spazio dell’armonia.
*Paolo G. Rico, giornalista e saggista