“Se non esistesse la letteratura, morirei”
Gesualdo Bufalino, l’autore della Diceria dell’untore, così caro a Leonardo Sciascia
«Se non esistesse la letteratura, morirei», così ebbe a dire una volta Gesualdo Bufalino ed è, la sua, non solo una sorta di dichiarazione di poetica, ma anche una vera e propria dichiarazione d’amore assoluto. Per Bufalino la letteratura è stata la più grande passione della sua vita, tanto da coltivarla per lunghi anni gelosamente, quasi con pudore.
Gesualdo Bufalino nasce a Comiso, in provincia di Ragusa, il 15 novembre del 1920. Il padre Biagio fa il fabbro ma ha, pure lui, una grande passione per la letteratura. Il piccolo Gesualdo trascorre gran parte del suo tempo nella modesta biblioteca paterna e già ragazzo divora libri e ogni altro materiale che sia stampato. Dopo aver conseguito il liceo a Ragusa, nel 1940 si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Catania ma nel ’42 è chiamato alle armi ed è costretto a interrompere gli studi. Nel ’43, dopo l’armistizio, il sottotenente Bufalino è catturato dai tedeschi in Friuli, ma riesce a liberarsi, e trova accoglienza presso amici in Emilia Romagna.
Nel ’44 si ammala di tubercolosi e viene ricoverato nel sanatorio di Scandiano dove l’amicizia con il primario, che è un uomo di grande cultura, gli consente di accedere alla sua ricca biblioteca e di nutrirsi di libri durante i malinconici mesi di degenza. Nella primavera del ’46 Bufalino lascia Scandiano e viene trasferito in un sanatorio vicino Palermo. Entro l’anno viene dimesso in quanto ormai guarito. La tisi e l’esperienza del sanatorio avrebbero lasciato un segno indelebile nella personalità sensibile di Bufalino: il suo quotidiano apprendistato della sofferenza e della morte con tutto quello che di catastrofico rappresenta per ciascun di noi e, in senso lato, per tutta l’umanità, lo avrebbe portato a una dolorosa visione della vita e della realtà alla quale avrebbe – autobiograficamente – dato voce nel suo capolavoro, cioè in Diceria dell’untore, la cui prima stesura è del 1950.
Intanto, Bufalino si laurea in Lettere a Palermo e inizia a lavorare come insegnante nell’Istituto Magistrale di Vittoria, vicino Comiso. Sarà per anni docente e successivamente preside. Mentre svolge queste attività, continua a divorare libri, a vedere centinaia di film (soprattutto francesi) e a scrivere le sue opere in solitudine e quasi in segretezza. Tra il ’46 e il ’48 pubblica un gruppo di liriche e prose sui periodici lombardi L’uomo e Democrazia; nel ’56 collabora, come poeta, a una rubrica del Terzo Programma della Rai. Nonostante un discreto successo, preferisce ritirarsi a vita privata e dedicarsi ai propri amatissimi studi.
Nel ’78 viene pubblicato un libro scritto a più mani Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, che consiste in una raccolta di fotografie e racconti dedicati alla sua amata città. Gli scritti di Bufalino in quel libro destano l’attenzione e la curiosità dell’editrice Elvira Sellerio e del grande Leonardo Sciascia che comprende subito che a scrivere è un vero talento. Ed è così, grazie soprattutto all’interessamento di Sciascia, che viene alla luce il grande scrittore che Bufalino teneva nascosto dentro si sé.
Nel 1981 – dopo averlo revisionato per un decennio – viene, così, dato alle stampe quello che è il capolavoro ormai da tutti riconosciuto del nostro scrittore: Diceria dell’untore. Bufalino ha sessantuno anni ed è adesso che conosce un successo certamente da lui non previsto, tanto da diventare un vero e proprio caso letterario che lo porta a vincere il Premio Campiello nello stesso anno. Da quel momento la produzione letteraria del Nostro diventa frenetica. Bufalino, per quindici anni, sperimenta un po’ tutti i generi: dalla poesia, alla narrativa, dal saggio all’aforisma e via dicendo. Collabora a quotidiani come Il Giornale fino al 1987. Intanto ha già alle spalle il lavoro di traduzione, elegante e finissima, di autori come Terenzio, Baudelaire, Giraudoux, Madame de la Fayette, Toulette e altri.
Nel 1982 pubblica la raccolta di poesie L’amaro miele e le prose d’arte e di memoria Museo d’ombra. Dello stesso anno è l’antologia che va sotto il nome di Dizionario dei personaggi di romanzo: da Don Chisciotte all’Innominato. Nell’84 è la volta del romanzo Argo il cieco e nell’85 la raccolta di saggi Cere perse; nell’86 i racconti L’uomo invaso e nell’87 Il malpensante, raccolta di aforismi; nell’88 il romanzo Le menzogne della notte gli fa vincere il Premio Strega. Nello stesso anno esce la raccolta di articoli e prose La luce e il lutto. Nell’89 pubblica l’antologia Il matrimonio illustrato scritto insieme alla moglie Giovanna Leggio e nel’90 la raccolta di saggi Saldi d’autunno.
Nel ’91 esce il romanzo giallo Qui pro quo e l’anno successivo il romanzo Calende greche e il volume fotografico Il tempo in posa. Immagini di una Sicilia perduta. Nel’93 appare il Guerrin meschino: frammento di un’opra dei pupi e l’anno dopo gli aforismi di Bluff di parole. Nel 1995 esce la raccolta poetica I languori e le furie e il volume Il fiele ibleo, pagine dedicate a Sciascia e alla Sicilia; nel’96, infine, il romanzo Tommaso e il fotografo cieco ovvero il patatràc e l’edizione definitiva di Amaro miele, accresciuta dalla raccolta Senilia. Gesualdo Bufalino muore in quell’anno, il 14 luglio, a causa di un incidente stradale sulla strada che portava a Comiso. Nello stesso ’96 escono postumi tutti i suoi scritti sul cinema raccolti in un volume dal titolo: L’enfant du paradis: cinefilie.
Gesualdo Bufalino – che non merita assolutamente di essere dimenticato – è uno scrittore che è difficile collocare in una corrente letteraria e che, anzi, sfugge a ogni rigida classificazione. E’, semmai, solo accostabile e può soltanto – come si vedrà più avanti – appartenere a una certa linea. Questo raffinato ed elegante scrittore è stato per anni in ombra e ha preferito la solitudine e il silenzio al rumore del mondo. Anche quando giunse al successo, preferì non esporsi più di tanto. «Non voglio esibirmi», affermò una volta, «perché in tutto quel che scrivo sospetto una sorte di interminabile, falsificato pettegolezzo su me stesso». Ed è un pensiero, questo, che ci dice tutto sull’indole e sulla psicologia dell’uomo.
Bufalino è un uomo del Sud, un meridionale e, soprattutto, un siciliano. Un siciliano nel cui sangue scorre abbondantemente la sicilitudine o, se si vuole, la sicilianità per cui la Sicilia è quasi come se fosse il mondo intero finendo, così, per diventare, una potente metafora esistenziale, di quella che lui definisce solitudine: «Ho scritto molto sulla Sicilia, negli ultimi anni. Più dell’antica che dell’odierna, più dell’amabile che dell’amara. Non perché non vedessi o non patissi l’intreccio di frode e violenza che sempre più pare presiedere al nostro destino, ma per un sentimento d’incompetenza e d’inanità, dal quale, se una regola m’era possibile trarre, era di non promuovermi giudice o pedagogo; chirurgo o clinico della mia gente ma di sommessamente capirla».
Così ha lasciato detto Bufalino il quale, certamente, non poteva che provare dolore e rammarico per la Sicilia della mafia e dei mafiosi e forse per questo si rifugiava, esaltandola, nell’altra Sicilia, la Sicilia dei siciliani così ricca di cultura, di tradizioni, di bellezze e di particolarità. «Si dice Sicilia,», scrive Bufalino ne La luce e il lutto, «e subito bruciano le labbra parole come “mafia”, “omertà”, “onore”, “gallismo”, “gattopardismo”…» e, subito dopo: «Non si chiedono… indulgenze cosmetiche: la mafia esiste, cancro e vergogna comune…». Ma la Sicilia – sembra dire Bufalino – non è solo questo, è altro e «per un siciliano» la Sicilia «significa…capire se stesso, assolversi e condannarsi…» e l’insularità significa, fra l’altro, essere consapevoli di «essere diversi». Infatti – prosegue – «ogni siciliano è… una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e luce» in cui prevale la morte e il sentimento della morte: «Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano… Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s’accompagna un pessimismo della volontà…». È questo il pessimismo meridionale in generale e siciliano in particolare, un pessimismo antico, quasi un male ereditato che non ci fa vedere davanti a noi che il nulla, la morte, le tenebre e il male che finiscono sempre per prevalere sulla vita, sulla luce e sul bene: «Così noi continuiamo ad opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente. E che nei nostri occhi, finché non li chiudiamo, sono destinati a combattersi e ad amarsi per sempre la luce e il lutto».
Più avanti – come se lo dicesse a se stesso – Bufalino scrive: «abbiamo un cielo difficile come un destino, siamo una gente infelice». Ebbene, questo sentimento dell’infelicità e della morte tutto siciliano, Bufalino lo porta dentro di sé e se la Sicilia è un’isola anche Bufalino è un’isola, perchè Bufalino fa della propria insularità, cioè della propria solitudine, la sua peculiarità e la sua forza pur nella consapevolezza di un’eterna sconfitta.
Or dunque, questi sentimenti dell’infelicità, della morte, della solitudine e della sconfitta sono alcuni dei grandi temi che Bufalino eredita dalla grande lezione del Decadentismo europeo, oltre che italiano, e che lo rendono in parte accostabile a più di un autore decadente del Primo Novecento e appartenente a una linea siciliana che partendo da Verga (che costituì un ponte tra Verismo e Decadentismo), attraversa Pirandello per poi giungere fino a Tomasi di Lampedusa, Sciascia e anche Consolo. Tutti legati da un filo che, a volte, sembra sottile e quasi invisibile ma che li tiene legati indissolubilmente, pur nelle loro fondamentali diversità e peculiarità.
In uno stile espressionistico, a volte barocco e anticheggiante alla ricerca del pastiche, ricco di metafore e sempre improntato ad eleganza e raffinatezza (anche nelle traduzioni), Bufalino ci ha lasciato opere che sarebbe stato un peccato se fossero rimaste nel cassetto. Si pensi soltanto al fatto che un capolavoro come Diceria dell’untore poteva rischiare di rimanere per sempre sconosciuto se l’editrice Sellerio e Sciascia non avessero riconosciuto in Bufalino la stoffa di un grande scrittore. Per fortuna, non è stato così e oggi possiamo ammirare questo libro che è un vero è proprio figlio del silenzio sia nel significato proustiano di opera che nasce dal silenzio e dalla solitudine in cui si chiude lo scrittore per partorirla, sia nel senso che è stata in silenzio per tanti anni. Del resto, la poetica del silenzio è parte integrante della complessiva e complessa poetica di Bufalino che, appunto, esalta sia la parola che il silenzio. «La parola è una chiave,», scrisse una volta il Nostro, «ma il silenzioè un grimaldello». Eppure – come si è visto – a un certo punto la vita lo porta a uscire dal silenzio assoluto e inizia per lui quella che egli stesso definisce «logorrea interminabile» che gli fa scrivere venti libri in quindici anni. Con Diceria dell’untore lo scrittore esce dalla sua «eburnea solitudine» e con le sue opere si mette a sfidare la morte e l’oblio. Chè, nella visione di Bufalino, il ricordo, la memoria e lo spettro della morte, a cui sono legati tanti altri sentimenti e valori, hanno un’importanza fondamentale. La memoria e la stessa letteratura sono due forme di salvezza dall’angoscia e dallo smarrimento esistenziale, dalla solitudine, dal senso di sconfitta, dalla debolezza della ragione di fronte al caos e al disordine del mondo, dal male di vivere e dai pirandelliani assurdi penosi della nostra esistenza che pure Bufalino avverte come preminenti e opprimenti nell’umana esistenza. E per questo – forte della lezione di Flaubert – fa anch’egli della letteratura e della scrittura una particolare forma di esistenza.
Per questo «classico contemporaneo» (come l’ha definito Maria Corti) la vita e la morte sono inverosimili ed entrambe racchiudono dentro di sé la catastrofe. E sono, questi, concetti che troviamo in Diceria dell’untore dove ci sono vite, esistenze che anelano disperatamente a vivere eppure non fanno altro che aspettare la morte in un disincantato gioco di verità e finzione, di essere e parere. Un’attesa della morte, un «apprendistato di morte» che diventano, decadentisticamente, «un’educazione alla catastrofe» in un mondo in cui, per Bufalino, come per Montale, la Storia non è magistra di nulla che ci riguardi.
A conforto di quanto affermiamo si tenga presente quello che Bufalino ha consegnato ne Antologia del “Campiello”: «Una vita come tante, due tre malattie intere, due tre mezzi amici, un umor malinconico con vampate d’ilarità; un cristianesimo ateo e tremante, inetto a capire se l’universo sia salute o metastasi, grazia o disgrazia; un odio della storia: lastrico di fossili ideologici, collana inerte di errori; un trasporto per ciò che dura e resiste – luoghi, solidali gerghi, abitudini oneste, strette di mano – nel fondo della mia provincia sperduta. In letteratura un amor di menzogna e di musica, purché radicate nel punto favoloso e geometrico del dolore e della memoria».
Parole, queste, che sono una vera e propria dichiarazione di poetica, di Weltanschauung, cioè di visione globale della vita e del mondo. Per questo «figlio di Sciascia» (così amava definirsi) la vita ha un «bizzarro sapore d’inesistenza»; la Storia – sono parole sue – è come «un toro impazzito che dà cornate qua e là alla cieca, senza ragione»; il mondo è, svevianamente, malattia e catastrofe e la letteratura non solo «simulacro» e «protesi del vivere» ma anche menzogna e musicalità radicate nel dolore e nella memoria. Quanto alla religione e alla fede, Bufalino confessa di essere un cristiano «ateo e tremante», che è, poi, il modo migliore di essere cristiano. In un inedito apparso sulla rivista Stilos di marzo-aprile del 2006, lo scrittore scrive che, riguardo alla «sfera del luminoso», sopravviveva in lui «solo il tremito intermittente d’una nostalgia, d’un rimorso, d’una speranza. Un tremito che pare annunzi l’epifania d’un istante di privilegio. Come chi, espulso da un Eden, nell’esilio della sua cecità, avverte d’un tratto un bagliore tornare a insinuarglisi fra le palpebre cucite e resta, incerto fra riverenza e spavento, a rabbrividire di fronte all’inconoscibile».
Un mondo come il nostro, nel quale dominano la violenza, l’inganno e la follia e dove tutti siamo educati alla morte e alla catastrofe, Bufalino pensò bene di rappresentarlo come un gigantesco ossimoro, quale in effetti è, spesso attraverso il gioco dei contrari e del rovescio, avvalendosi di un registro alto, con «scialo» di aggettivi – come spiega lui stesso –, con «l’oltranza dei colori» proprio «per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti». Almeno sulla pagina, se è vero che – come scrive nella Diceria – «non facciamo da mane a sera che carezzare le nostre vanitose agonie». Probabilmente alla ricerca disperata di «una memoria qualunque in cui sopravvivere».
*Salvatore La Moglie, scrittore