Ugo Ronfani
giornalista, critico d’arte e letterario, saggista, uno dei maggiori censori teatrali del Novecento
Era un giorno del settembre ’76 quando un amico mi regalò il libro “La toga rossa” di Ugo Ronfani, giornalista, critico d’arte e letterario, saggista, uno dei maggiori censori teatrali del Novecento. Da 15 anni era corrispondente da Parigi del quotidiano “Il Giorno” e stava per rientrare in sede con la qualifica di vicedirettore. Cominciai quasi subito a leggere il romanzo, che mi prese tanto da tenermi chino sulle sue pagine fino all’una di notte e oltre. Quelle pagine dal ritmo incalzante mi presero molto, e decisi di mettere giù le emozioni che mi avevano procurato. Qualche mese dopo Ugo venne a cercarmi e alla presenza di tutti i colleghi mi ringraziò, elogiando la mia recensione. Era la prima volta che lo vedevo, e da allora ci rivedemmo molto spesso, perché aveva ricevuto l’incarico che gli era stato promesso. Occupava una stanza al primo piano, vicina a quelle di un altro personaggio mitico, Angelo Rozzoni, e del direttore di allora Gaetano Afeltra. Diventammo amici. Quando scrisse “La rivolta del vescovo Levebvre”, fui il primo ad averlo fra le mani. Me lo portò al quarto piano, dove era sistemata la cronaca, ma io ero fuori per seguire un grave fatto di sangue. Me lo lasciò sulla scrivania con un biglietto.
Mi scelse tra i collaboratori della sua rivista dedicata all’Europa, e anche se disponevo di poco tempo ero sempre pronto ad esaudire ogni sua richiesta: un’intervista a Giorgio Bocca o al presidente di una grande azienda. Gli volevo molto bene e lui ne voleva a me, come ne voleva al bravissimo collega Piero Lotito, che è anche scrittore e disegnatore geniale. Ricordo che quando nell’80, il giorno prima della mia partenza per le ferie, mi affidò uno di quegli incarichi, non gli dissi che avevo già pronti i bagagli. Eseguii e basta. Quando lo seppe, si scusò ripetutamente. Lo rassicurai: non c’era alcun problema. E così non si fece scrupolo a telefonarmi nella città dei trulli per dirmi che a Metaponto i carabinieri avevano trovato il corpo decapitato di una donna che era stata rapita a Milano. La mia risposta fu pronta: “Ugo, mi metto in macchina e vado”. E fu felice una settimana dopo, quando gli riferirono che era arrivato un mio articolo sugli ori di Taranto prossimi a partire per Milano per essere esposti contro il volere di molti cittadini della bimare, così contrari, da essere disposti a votare un “referendum”, temendo che il tesoro non tornasse più indietro o venisse danneggiato nel tragitto. A Milano l’articolo suscitò la reazione della concorrenza, che se la prese con la presidente della Provincia, organizzatrice del progetto, accusata di favoritismo. Invece io avevo semplicemente letto un articolo su “Il Corriere del Giorno”, firmato da Nicola Caputo, autore di tanti volumi sulla storia e le tradizioni della città. Mi telefonò il collega Nino Gorio per rallegrarsi dello… “scoop” e per informarmi dei malumori.
Mi trovavo molto bene con Ronfani. Uomo coltissimo, schietto, acuto, facile alla battuta francese. Mi affidò la “cucina” di una pagina sulla linea del freddo e mi lasciò piena libertà sia nella scelta dei pezzi sia nella loro titolazione. Per alcune pagine speciali mi affidò interviste importanti, al presidente della Mac Intosh, a un alto dirigente dell’Alitlia… Più di una volta fu mio ospite a cena e in un’occasione ci fece compagnia il pittore Mario Bardi, un siciliano già docente di storia dell’arte al liceo scientifico, che poi mi chiamò al telefono per dirmi che Ronfani lo aveva affascinato. E mi invitò a fornirgli notizie sulla sua biografia. “E’ lunghissima. Ha scritto una quindicina di testi teatrali rappresentati anche all’estero e in televisione; per la poesia ‘“Nella città straniera’, ‘I porti per l’allegria’…); saggi, tra cui ‘Trent’anni di teatro francese’; ‘Rapporto sulla Francia di Mitterrand’; il ‘pamphlet’ ‘La morte di Pulcinella’; romanzi, tra cui ‘La toga rossa’, ‘Il cavallo d’oro’… ; altri lavori come ‘Lo stuzzicadenti di Jarry’; ‘La rosa e la spina’; Premio Campione con ‘Perché De Gaulle’ e ‘Salotto parigino’; Premio Estense con ‘Il nuovo teatro in Francia’. Nel ’76 tra i primi cinque selezionati per il Premio Estense…”. Nel 1988 fondò e diresse la rivista di teatro “Hystrio”. Per la televisione curò “Pomeriggio a teatro”. Diresse l’Istituto per la formazione al giornalismo di Milano e fu coordinatore artistico del bicentenario goldoniano… A Taranto in un albergo di viale Virgilio (credo, il Palace Hotel) allestì un convegno sul teatro, presente l’attore Ernesto Calindri, giunto all’età di 90 anni. Negli anni 70 prese parte a un premio, organizzato dall’Associazione nazionale fabbricanti di biciclette e arrivò secondo, se non sbaglio dopo Gianni Granzotto. Ma lo aveva fatto per sfizio. Nell’attacco del suo racconto accennava alla rivoluzione cinese, fatta in sella alle due ruote.
Insomma un’attività intensa, la sua. Il lavoro lo appassionava, gli faceva “sentire la fortuna di vivere fortemente questo periodo”. Un lavoro vissuto anche con momenti di rischio professionale “in certi viaggi d’emergenza per verificare gli attimi più drammatici della guerra d’Algeria, attimi in cui a Parigi gravava l’atmosfera pesante degli attentati al plastico, della caccia al terrorista…”. Me lo disse durante una mia visita nella sua abitazione di via Raffaele De Grada, al villaggio dei giornalisti, due passi dalla sede del “Giorno”, che allora era nel palazzo dell’Eni n via Angelo Fava. “Le luci esplodevano in più di cinquanta teatri; nonostante la guerra d’Algeria a Parigi nacque il ‘Nouveau Thèatre’. Si schieravano non già sulle grandi ribalte, dove si continuava a fare del teatro digestivo da boulevard, non sulle scene sovvenzionate, dove si recitavano Corneille, Molière, ma nei teatrini della ‘rive gauche’ con i mostri sacri del nuovo teatro: Adamov, Genet, Jonesco, Beckett. Intorno a questa costellazione, che è la matrice del muovo teatro francese, c’era la vecchia vena del teatro ‘naturalist’, il teatro esistenzialista, che ripropone i vecchi tempi dell’angoscia esistenziale suscitati dalla guerra. C’è soprattutto, sul piano non più dei contenuti, ma delle grandi strutture, il grande esempio del teatro di Jean Vilar…”.
Facevo poche domande, ascoltavo, questo eminente giornalista e scrittore; questo pozzo di cultura che aveva conversato con Sarte, Rostand, Simone de Beauvoir… “Che impressione ti ha fatto questa scrittrice? “Cominciava a interrogarsi sul suo futuro prossimo, confessava le sue inquietudini, meditava. Aveva perso molto della sua combattività; discuteva sulla dignità di prendere congedo dai piaceri della vita, sul mistero dell’esistenza”. Com’era arrivato, Ugo Ronfani, al giornalismo? “Per caso. Avevo cominciato l’attività politica, quando mi accorsi che la parola detta, gridata, quella del comizio, del dibattito era più approssimativa della parola scritta. E dall’altra parte mi rendevo conto che la parola scritta nell’atmosfera un po’ artificiale della creazione letteraria correva il rischio dello scollamento dalla realtà. Allora fra la realtà gridata in modo spiccio come uomo politico e una parola che si confrontava con la realtà nuda, quotidiana la soluzione migliore era la seconda”.
Non potevo non domandargli che cosa fosse rimasto del Ronfani che si calava nel personaggio del professore nella “Toga rossa”, delle intemperanze, dell’estremismo, dell’entusiasmo che spingono il docente a parteggiare per l’evaso Vincenzo Oblato fino a gettargli addosso la toga del giudice. “Lo sdegno per l’ingiustizia sociale… E’ cambiato il modo di rivoltarsi: dalla generosa, cieca contestazione, fatta a testa bassa, come il toro nell’arena, alla consapevolezza che non tutto è da buttare”. Parlava con distacco, con un tono qua e là un tantino professorale, ma in uno stile lineare, pulito, scorrevole. Metteva persino a posto le virgole. Forse aveva un po’ l’aria del parroco di città, robusto, non alto, cordiale. Pessimista sulla solidità della democrazia in Italia, assertore dell’azione individuale, accanto a quella collettiva, nella ricostruzione della società.
Ugo Ronfani, che aveva vinto anche il Premio Fabbri, morì nel sonno a 82 anni. Ai funerali nella chiesa Sant’Angela Morici, a Milano, in via Cagliero, parteciparono pochissimi colleghi di via Fava: Franco Abruzzo, che dal quotidiano dell’Eni era passato come redattore capo al “Sole-Ventiuattr’ore” e allora presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia; Piero Lotito, legato a Ronfani da un affetto profondo (andava spesso a fargli visita durante la sua malattia); il titolare della galleria di via Carlo Toma, “Spazio Prospettive d’arte” Mimmo Dabbrescia, accompagnato da uno dei suoi due figli, e altri. Era socialista e non penso fosse credente (non ne parlammo mai). Eppure il celebrante rivelò che Ugo andava a cercarlo in chiesa e si confidava con lui.
*Franco Presicci, giornalista, scrittore