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Omaggio a Carlo Emilio Gadda, a 130 anni dalla nascita e a 50 dalla morte

Cinquant’anni fa moriva Carlo Emilio Gadda l’autore di capolavori come La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. La sua particolare poetica e il suo plurilinguismo sono una ricchezza tutta da scoprire

Carlo Emilio Gadda appartiene a quella categoria di scrittori che amiamo definire immensi non tanto e non solo per la quantità della loro produzione letteraria quanto per la complessità della loro personalità, del loro pensiero, della loro poetica, dei loro motivi ispiratori e per le loro particolari scelte linguistiche e stilistiche.

Il gran lombardo – come tanti altri suoi contemporanei –  sfugge alla sbrigativa collocazione entro uno dei movimenti letterari del ‘900, anzi una delle sue caratteristiche è proprio quella dell’inclassificabilità. Personalità schiva, solitaria e molto risentita, il Nostro lavora nel proprio laboratorio di scrittura in maniera appartata, anche se i contatti e le amicizie nel mondo delle lettere non mancano. Nel periodo della prigionia, durante la Prima Guerra Mondiale, stringe amicizia con Ugo Betti e Bonaventura Tecchi, il quale lo avvicina alla rivista fiorentina Solaria, permettendogli di conoscere i migliori intellettuali di quel periodo.

Gadda nasce centotrenta anni fa a Milano, il 14 novembre del 1893, dal secondo matrimonio del padre con l’insegnante di francese della sua prima figlia, Adele Salvi, di origine ungherese. Dopo di lui nasceranno Clara ed Enrico, l’amatissimo fratello che morirà durante la Prima Guerra Mondiale e che Gadda piangerà per tutta la vita. Enrico è il figlio prediletto della madre, diverso da Carlo Emilio che, in famiglia, è considerato un «imbecille», incapace e impacciato. Gadda soffrirà sempre per questa poca stima verso la sua persona e soprattutto per il poco amore che l’austera e «adorata» madre riesce a dargli. Nel 1899 il padre Francesco Ippolito – che contrae debiti e spende il denaro con una certa facilità – costruisce la villa di campagna a Longone, in Brianza. È dopo questa costruzione che iniziano i problemi economici in casa Gadda e si fanno dei pesanti sacrifici per tirare avanti. Anche la villa di Longone sarà un eterno motivo di cruccio e di sofferenza per il nostro autore che ne farà una protagonista nella Cognizione del dolore.

Nel 1909 il padre muore e i fratelli Gadda riescono a vivere, con qualche difficoltà, grazie alla buona amministrazione e ai sacrifici della loro mamma. Nel 1912 – anno in cui muore Pascoli – Gadda consegue la licenza liceale e si iscrive – per volontà materna ma non sua – alla facoltà di ingegnerai a Milano. Il giovane Carlo Emilio è più portato per le lettere e la filosofia e, infatti, più tardi si iscriverà – senza mai laurearsi – alla facoltà di filosofia, avendo in testa un progetto di tesi su Leibniz, autore da lui molto amato.

Nel 1915 Gadda viene chiamato alle armi e partecipa alla guerra da interventista convinto e in nome di una patria che vorrebbe grande ed eticamente elevata. L’esperienza della guerra, però, lo lascerà molto deluso, amareggiato, indignato e pieno di rancore perché si accorge che l’Italia che è andata al fronte è, tutto sommato, un’Italietta in tutti i sensi, soprattutto moralmente. Il sottotenente Gadda – che al fronte è così irascibile e anche infastidito di essere (anche lì) giudicato un «imbecille» e un «inetto» –  fa anche l’esperienza terribile della prigionia prima in Austria, a Rastatt e poi a Cellelager, in Germania. Dopo una «puerizia atterrita», dopo una «infanzia malata» e una adolescenza «catastrofica» quella della prigionia costituisce per Gadda un’altra esperienza devastante che rappresenta un momento fondamentale nel graduale processo di cognizione del dolore. Da quell’esperienza nasce il Giornale di guerra e di prigionia, che raccoglie i diari di guerra che saranno pubblicati solo nel 1955. Molto del futuro di Gadda è già in questi diari che narrano il dramma della guerra ma anche di un uomo che si sente «umiliato e offeso».

Nel 1920 si laurea in ingegneria elettronica e, in seguito, si sposterà per svolgere la sua attività di ingegnere in Sardegna, in Lombardia e in Argentina. Nel ’24 ritorna a Milano, si iscrive a “Filosofia”, insegna matematica e fisica e, nel frattempo, scrive pure un libro di narrativa, Racconto italiano di ignoto del Novecento, e partecipa a un premio letterario indetto dalla Mondadori. Scrive anche un saggio su Manzoni, Apologia manzoniana, quindi, nel ’25, è a Roma come ingegnere mentre nel ’26 inizia a collaborare a Solaria. Tra il ’28 e il ’29 è a Milano e lavora a due testi incompiuti: il saggio filosofico Meditazione milanese e il romanzo La meccanica. Nel ’31 pubblica su Solaria i racconti La Madonna dei filosofi e nel ’34 i racconti Il castello di Udine, che gli fa vincere il Premio Bagutta. Gadda vorrebbe vivere solo del lavoro letterario, collaborando a varie riviste ma è costretto, ancora, a fare l’ingegnere.

Nel 1936 muore la madre, con la quale ha sempre avuto un doloroso rapporto di odio-amore, verso la quale ha sempre provato – oltre all’adorazione – anche un forte risentimento. Vende l’odiata villa di Longone e inizia a scrivere La cognizione del dolore, l’opera che più ha amato forse perché c’è lì dentro tutto Gadda e tutto il suo inconscio. I primi capitoli vengono pubblicati nel ’38 dalla rivista Letteratura diretta da Alessandro Bonsanti. Nel ’39 pubblica anche un volume di articoli e saggi, Le meraviglie d’Italia. Nel ’40 lascia definitivamente il lavoro di ingegnere e si trasferisce a Firenze, dove frequenta l’attivo ambiente letterario, sapendo, anche, di poter contare sull’amicizia di Eugenio Montale, Tommaso Landolfi, Elio Vittorini e Antonio Delfini. Tra il ’40 e il ’41 traduce dallo spagnolo testi di Quevedo e di Salas Barbadillo. Nel ’44 esce la raccolta di “disegni milanesi” L’Adalgisa. Nel ’45 è a Roma e nel ’46 inizia a mettere mano a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che esce a puntate su Letteratura e che sarà pubblicato, in volume, nel ’57, da Garzanti. Lavora anche a Eros e Priapo, saggio sessuologico sul fascismo che sarà pubblicato nel ’67. Nel ’50 lavora per la Rai come redattore dei programmi culturali; nel ’52 pubblica presso Neri Pozza Il primo libro delle favole e nel ’53, presso Vallecchi, le Novelle del Ducato in fiamme. Nel ’55 si dimette dalla Rai per dedicarsi esclusivamente all’attività di scrittore. Nel ’57 il Pasticciaccio gli fa vincere il premio Editori e, finalmente, Gadda ottiene, dopo il successo di critica, anche quello di pubblico. Nel ’58 escono i saggi critici I viaggi la morte e nel ’61 Verso la Certosa. Nel ’63 Einaudi pubblica La cognizione del dolore che gli fa ottenere il prestigioso riconoscimento del Prix International de Littérature, assegnatogli da tredici editori di tredici Paesi. Sempre nel ’63 Garzanti pubblica una nuova edizione dei racconti con il titolo di Accoppiamenti giudiziosi. Nel ’64 le sue prose giornalistiche vengono raccolte in volume da Einaudi con il titolo di Le meraviglie d’Italia; Garzanti, invece, pubblica le divagazioni storiche su I Luigi di Francia, che erano nate come letture radiofoniche. Del ’67 è il dialogo a tre voci Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, ironico pamphlet teatrale antifoscoliano pubblicato pure da Garzanti. Del ’71 è la pubblicazione, sempre presso Garzanti, di Novella seconda. Gadda muore a Roma il 21 maggio del 1973. Dell’81 è la raccolta postuma dei racconti sparsi con il titolo di Le bizze del capitano in congedo e altri racconti; dell’82, invece, la raccolta di saggi sparsi in Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni. Notevole è l’epistolario soprattutto il carteggio con Gianfranco Contini. Tra ’90 e ’93 Garzanti ha pubblicato in 6 volumi le Opere di Gadda a cura di Dante Isella. Nel ’93 sono uscite pure le Poesie.

Vita dolorosa, quella di Gadda, vissuta con la consapevolezza di essere un inetto, un perdente, uno sconfitto, un escluso dalla vita. Una vita in cui non sembra vedersi e neppure intravedersi la luce di Dio e della fede; né sembra essere stata rasserenata o resa meno avvelenata dalla presenza di qualche donna. Gadda non si è mai sposato e nulla si sa di suoi possibili amori. Anche nel campo sentimentale e sessuale dovette, forse, ritenersi un perdente, uno sconfitto. Certamente lo fu nel campo degli affetti familiari: il figlio perfetto e più amato era il fratello Enrico, mentre lui era il diverso della famiglia, poco stimato e poco amato. Questa sconfitta nei sentimenti e negli affetti più cari ha sempre pesato come un macigno sul nostro autore, rendendolo – lui, già per natura, personalità così risentita e sensibile –  solitario, irascibile, permaloso, pessimista, timido, umorale, psicologicamente complessato (aveva, fra l’altro, anche forti complessi di colpa) e, soprattutto, nevrotico. Della sua nevrosi come della sua inettitudine era ben consapevole ma, si badi, a renderlo così non fu solo la famiglia ma la vita stessa: la vita, la realtà e il mondo moderno e poi postmoderno nel quale è vissuto. E la nevrosi, l’inettitudine, il sentimento della sconfitta ecc. sono mali comuni a tanti scrittori e artisti vissuti nella lunga epoca del Decadentismo.

«Tutto era per lui ombra e tortura», dice Gadda riferendosi a se stesso, perché non riuscendo ad identificarsi nella realtà e nel mondo in cui vive non può che subirli come una specie di pirandelliana stanza della tortura. La realtà e il mondo, per Gadda come per tanti scrittori decadenti ed artisti espressionisti, sono dominati non dall’ordine e dal Logos ma dall’irrazionale, dal caos e dal disordine, «un orrendo logorante disordine». Così vive in disarmonia col mondo lui che, dentro, ha solo «svogliatezza e timidezza, incapacità di comandare e rabbia di non saper decidermi a nulla». Di fronte a una realtà caotica e barocca, ma anche relativa, instabile, mutevole, molteplicemente interpretabile e, pertanto, sfaccettata, inafferrabile Gadda è come paralizzato, insicuro, pieno di incertezze e forse l’unica certezza è quella – direbbe Montale – di non possedere «il coltello che recide» e «la mente che decide e si determina».

Pieno di risentimenti, di frustrazioni e di insoddisfazioni Gadda pensa che si potrà rivalere, di avere la sua rivincita sulla vita attraverso la scrittura. La letteratura lo dovrà riscattare dalla pesantezza dell’essere e da una realtà che vive come assurda e insensata. E così il Nostro si incarica di smascherarla, di demistificarla, di metterla a nudo con tutte le sue incongruenze e contraddizioni. «Non ho avuto amore», scrive, «né niente. L’intelligenza mi vuole soltanto per considerare e soffrire». È con l’intelligenza e la ragione che Gadda intende vendicarsi della vita e del mondo e il metodo che usa è la deformazione. Perché «deformare – scrive –  è conoscere». La deformazione come strumento e tecnica di esplorazione e di conoscenza della realtà e del mondo. Gadda avrebbe voluto avere «la sicurezza dell’uomo che non pensa troppo, che non si macera con mille considerazioni, che non pondera i suoi atti col bilancino», perché chi troppo pensa e troppo pondera finisce per soffrire troppo. Allora sarebbe meglio essere un uomo normale? Gadda fa capire che, nonostante la sofferenza, è meglio non essere normale perché il “«cosiddettouomo normale” è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio [il famoso gnommero] di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi (…)». Gadda vuol dire che l’uomo normale non riesce a vedere la realtà nelle sue contraddizioni e nelle sue assurdità; egli «non ha coscienza o sospetto dei suoi stati nevrotici», perché è immunizzato da «bambinesche certezze». Invece, l’anormale, «l’anomalo raggiunge, qualche volta, una discretamente chiara intelligenza degli atti e delle cause…». Dunque, il normale è nevrotico ma non sa neppure di esserlo, né, tantomeno, va alla ricerca delle cause e, pertanto, vive in piena salute, direbbe Svevo, ignorando le azioni di questo mondo e le loro cause… Meglio, quindi, essere anomalo, diverso, perché questa diversità gli consente di decifrare a fondo la realtà e il proprio tempo. Diversità e deformazione sono, pertanto, le due formidabili armi di cui Gadda si serve –  dolorosamente – nello sforzo continuo di comprendere e analizzare questo pazzo mondo, nello sforzo paziente della cognizione. Oltre a queste due armi, lo sperimentalista Gadda ne ha anche una terza che non è secondaria e che, anzi, agisce di conserva con esse: l’umorismo, il sarcasmo, l’ironia. Anche il riso – ora amaro, ora beffardo, ora sferzante e caustico – di Gadda è un formidabile strumento per demistificare e decifrare la realtà e la vita nella sua complessità e nella sua complicatezza. Come Münch, anche Gadda lancia il suo urlo contro l’entropico mondo moderno, ma contro di esso scaglia pure la sua corrosiva ironia, la sua caustica risata e, anche, il suo superiore sorriso.

Gadda è un uomo in continua polemica con la realtà che odia perché lo ha deluso e perché lo fa vivere con disincanto e senza alcuna speranza o illusione. Gadda ce l’ha a morte con la realtà che ci impone la corrotta e marcia società borghese in generale e  soprattutto quella particolare in cui vive. La borghesia imperante lo ha fortemente deluso perché ha ucciso quei valori e quegli ideali una volta tanto sbandierati  ed esaltati come i più alti e i più assoluti. Il positivista Gadda non può  accettare la crisi dei valori in cui crede e crederà fino alla fine e per questo vive la  vita con cruccio e insofferenza. E così ogni suo libro si presenta come una tappa della progressiva presa di coscienza della crisi della civiltà borghese, della sua cultura, della sua ideologia e, alla fine, di se stesso, del proprio io che è un io borghese che, però, si ribella e rifiuta, in eterna lacerazione interiore.

Si parlava prima della deformazione, della diversità e del riso come strumenti di decodificazione, di analisi corrosiva della realtà e anche di irrisione verso la borghesia e la «scemenza del mondo». Gadda sa che queste tre armi hanno bisogno di un formidabile supporto per poter svolgere il loro lavoro di scomposizione del reale. E a cosa pensa Gadda? Dove pensa di trovarlo questo supporto? Gadda lo trova genialmente nella lingua, ovvero in una particolare lingua e in un suo particolare uso. Così si immerge «nel gran fiume della lingua» e crea il pastiche, il miscuglio di lingue diverse che lo porta a una conseguente pluralità stilistica. Se il mondo e la realtà in cui viviamo sono caos, disordine, guazzabuglio, groviglio, gnommero di cui non si riesce a trovare il bandolo, allora soltanto una lingua barocca, strana, eccentrica, intricata e multiforme può rispecchiare questo mondo e questa realtà cercando di decifrarli e conoscerli in tutti i loro aspetti e significati. Con le sue armi ben affilate Gadda cerca di capire il mondo con il suo Male e aspira a mettere ordine laddove regnano il caos e l’entropia più assoluta. E se non ci riesce, almeno ha cercato di rappresentare e di comprendere questo mondo che ci costringe alla solitudine e alla disperazione esistenziale.

Tra il ’26 e il ’40 Gadda si accosta alla psicanalisi, «questa grande componente della cultura moderna». Le scoperte di Freud, soprattutto quella dell’inconscio, esercitano su di lui un enorme fascino. Gadda comprende bene che la psicanalisi è un valido strumento di analisi e di decodificazione della realtà e della psiche umana così complessa, misteriosa e indecifrabile. Anche la teoria della relatività di Einstein e la teoria dei quanti di Max Planck rientrano nei suoi interessi culturali già vasti. Infatti, Gadda ha letto un po’ di tutto: Cesare,  Svetonio, Catullo, Orazio, Dante, Villon, Ariosto, Cervantes, Rabelais, Folengo, Shakespeare, Michelet, Lefevre, Saint-Simon, Parini, Porta, Belli, gli scapigliati, Manzoni, Dostoevskij, Conan Doyle, Spinoza, Leibniz, Kant, Bergson, ecc. A ciascuno di questi scrittori e pensatori, poeti e storici  Gadda deve qualcosa e molto ad alcuni. Per esempio, molto ad Ariosto, a Cervantes, a Shakespeare (amatissimo), a Belli, a Dostoevskij, a Manzoni, a Leibniz. A Leibniz deve certamente spunti sull’arte combinatoria; sulla visione dell’uomo come monade che, pur includendo dentro di sé l’universo, non comunica con gli altri uomini, cioè con le altre monadi: quella che potrebbe sembrare un’influenza reciproca fra monadi non è altro che la manifestazione apparente della preordinazione divina, e cioè quella che Leibniz chiama «armonia prestabilita». A questo proposito si tenga presente il saggio che Gian Carlo Roscioni ha dedicato a Gadda con un titolo che rovescia la tesi di Leibniz: La disarmonia prestabilita. Infine, a Leibniz il Nostro deve anche la nozione di «dettaglio infinito» e di «dettaglio del mondo» e si sa che Gadda guardava anche al minimo particolare per riuscire a comprendere l’uomo e il mondo. Quanto a Manzoni, l’autore dei Promessi sposi è per Gadda un punto di riferimento essenziale in quanto, pur essendo egli così innovativo e d’avanguardia, è molto legato alla tradizione. C’è chi ha parlato di una linea lombarda in cui far rientrare il Nostro, una linea che parte da Beccaria, dai fratelli Verri, da Carlo Cattaneo e che arriva fino a Manzoni e Carlo Porta. Certo Gadda sente il legame con questi nomi ma, pur mantenendosi idealmente nel solco della tradizione, la vuole superare creando qualcosa di diverso, di nuovo, di inedito. La cognizione del dolore e il Pasticciaccio – i due capolavori con cui comunemente Gadda viene identificato – sono indubbiamente qualcosa di nuovo nella narrativa italiana e non solo italiana. Perché Gadda, diciamolo ad alta voce, è un autore di dimensione europea, degno di stare a fianco di un Borges, di un Pessoa o di un Kafka. E può definirsi anche postmoderno per più di un aspetto, per es. per la caratteristica dell’incompiutezza dei suoi libri più famosi.

La Cognizione e il Pasticciaccio sono due capolavori irripetibili. In essi c’è tutto Gadda con i motivi e i temi della sua poetica, cioè della sua visione del mondo e della realtà. Gadda definisce la vita «un “intreccio” e quale garbugliato intreccio! (…)», mentre «complessa» gli appare la «trama» della realtà. Realtà che è barocca e grottesca allo stesso tempo («Il barocco e il grottesco albergano già nelle cose (…), legati alla natura e alla storia»), ma della cui totalità non siamo più padroni, non siamo più in grado, come gli scrittori realisti dell’800, di dominarla e di rappresentarla sulla pagina. Insomma, dopo la crisi del positivismo, la realtà è sfuggita di mano, è diventata inafferrabile, complessa, ingarbugliata, multiforme, barocca e grottesca spiega Gadda, cioè strana, bizzarra, eccentrica, assurda, paradossale e kitsch. E si tenga presente che il Nostro detesta il cattivo gusto della borghesia dominante ed è insofferente «della imbecillaggine generale del mondo», «della bestiaggine comune». Per Gadda il mondo è anche stupido oltre che cattivo. Ma come fare a riappropriarsi della realtà intera e rappresentarla nella sua totalità? Gadda sa che questa operazione è difficilissima e che il tempo del Realismo ottocentesco è ormai finito. Il suo particolare realismo, che poco ha a che fare con quello classico,  lo porta a concludere che è possibile reinventare, ricostruire la realtà e il mondo stesso, tentare di riportarli al Logos attraverso la deformazione e il pastiche.

Nei due capolavori il pastiche domina in ogni pagina. Il plurilinguismo gaddiano è andato all’assalto della realtà mostruosa e aggrovigliata, inconoscibile e misteriosa. Il macaronico Gadda opera la mimesi del parlato e utilizza le lingue e i linguaggi più disparati: il romanesco, il napoletano, il molisano, il ligure, il toscano, il fiorentino arcaico, il lombardo, ecc., ma anche i linguaggi settoriali, il lessico della burocrazia, della tecnica, della scienza e della filosofia e, accanto a tutto questo, si tenga ben presente, c’è sempre l’italiano aulico, la lingua della tradizione. Ad ogni situazione e ad ogni lingua, linguaggio e parlata usati Gadda adegua il registro stilistico e il tono, che ora sono bassi ora medi, ora elevati ora colloquiali e via dicendo. Multilinguismo e pluristilismo, dunque. Entrambi  con la funzione di cogliere, di imbrigliare, di decodificare e comprendere il groviglio della realtà, «il nostro bizzarro, imprevedibile vivere». Per Gadda, infatti, non esiste solo una pluralità di cause nel caos che è diventato il mondo, ma esiste anche il caso, l’imponderabile e l’imprevedibile. Ci sono anche le «inopinate catastrofi» di cui parla il commissario “filosofo” don Ciccio Ingravallo. In mezzo a tutto questo c’è il tentativo della parola – variamente usata – di comprendere il mondo e di mettere ordine al caos, anche attraverso il gioco delle combinazioni. Il Logos contro il disordine e il caos, ma anche il Logos come strumento per rappresentarlo e simboleggiarlo. Perché Gadda sa che non è semplice né agevole descrivere in maniera ordinata e completa la realtà, come sa, però, che «il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare (…)». E come lo rappresenta? Appunto attraverso la lente deformante del pastiche e dell’ironia. Un mondo labirintico, intricato, inspiegabile e babelico ha bisogno di una lingua babelica e di pasticcio per cercare di capirlo, coglierlo e dominarlo. Impresa davvero ardua se si pensa che «ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti legamenti o grovigli infiniti». E così i due capolavori di Gadda restano incompiuti, in entrambi è impossibile conoscere la verità su chi ha ucciso la Signora (la madre dell’autore nella cognizione) e su chi ha orribilmente assassinato la bella Liliana Balducci di Via Merulana. Il Pasticciaccio  è un vero e proprio giallo, ma anche la Cognizione, almeno nel finale. Entrambi si prestano ad una lettura psicoanalitica. Nella Cognizione c’è l’ambiguo e conflittuale rapporto tra madre e figlio con complessi di colpa e forse anche un complesso di Edipo mai risolto e c’è, soprattutto, il fatto che con il pensiero, cioè con l’inconscio, è il figlio che ammazza la madre. Così il matricidio psicologico diventa, probabilmente, l’unica maniera di risolvere l’angoscioso e lacerante conflitto che vede madre (Super Io forte) e figlio (Io debole) come l’una contro l’altro armati. La verità, però, non si dovrà conoscere, la si potrà solo immaginare e, così, del gomitolo non si riesce a trovare il bandolo. E il pasticciaccio, la confusione, l’irrazionalità della realtà e dell’uomo restano grottescamente su questa sciagurata terra dominata dallo sciocchezzaio e dal male.

Non diversamente accade nel Pasticciaccio dove campeggia la figura anomala di un filosofeggiante investigatore meridionale, don Ciccio Ingravallo,  il quale cerca di ragionare e di dedurre, un po’ come fa lo Sherlock Holmes di Conan Doyle. Anche qui, in questa oscura vicenda ambientata durante il fascismo ( quando, cioè, di cronaca nera non si poteva parlare) ci sarebbe molto da psicanalizzare, ci sarebbe più di un inconscio da decifrare, primo fra tutti proprio quello di don Ciccio Ingravallo così inorridito ma anche morbosamente attratto dalla carne e dalla nudità senza vita della bella signora Liliana, a cui è stata squarciata la gola. Anche qui il romanzo non ci dà la verità sul delitto e resta il mistero, resta l’impossibilità della verità in questo mondo così strano da sembrare una parodia, una finzione.

In entrambi i romanzi Gadda si avvale della tecnica del monologo interiore, facendo scorrere liberamente i pensieri dei personaggi. Nella Cognizione Gadda prende di mira la borghesia e la famiglia borghese con i suoi falsi valori e le sue ipocrisie; nel Pasticciaccio c’è una sottile e sotterranea polemica col fascismo che vuole nascondere ipocritamente certe realtà sociali e, del resto, Gadda ce l’ha col fascismo perché aveva dato il bando ai dialetti. E così, come per dispetto, Egli ne fa un abbondante uso, anche perché convinto che le parlate dialettali spesso rendono meglio la realtà e il significato delle cose che non la lingua ufficiale.

Restando in tema di fascismo va detto che dopo l’iniziale giovanile adesione e simpatia per un movimento che esaltava il vitalismo, la forza, il coraggio e il giovanilismo Gadda passerà più tardi a un deciso antifascismo che troviamo espresso nel feroce pamphlet Eros e Priapo. Ma in merito al fascismo e soprattutto al fascismo come stato d’animo, al fascismo che è in noi e che potrebbe risorgere, esiste una risposta di Gadda alla rivista Successi del 1961. Diceva il gran lombardo: «Se per “ritorno fascista” si intende una repentina eversione delle leggi di vita associata che assistono e confortano lo sviluppo umano e lo Stato democratico definito costituzionalmente, tanto più quando una siffatta eversione venga operata con violenza sopraffattrice da un gruppo di cittadini per sottrarsi alla disciplina pubblica liberamente accettata dalla nazione, è certo che gli avvenimenti di Algeri e di Parigi inducono ad amaramente riflettere. (…) Certo il caso dimostra che un ritorno della violenza e dell’arbitrio è tuttavia possibile (e non soltanto in Francia o in Italia) ove non sia contrastato a tempo da una ferma volontà di resistervi. I giovani, gli “arditi”, gli spregiudicati corrono facilmente alle vie e alle armi, come coloro che dalla sorte delle armi hanno tutto da guadagnare e non hanno nulla da perdere: come coloro che amano le armi, e l’impiego di esse amano considerare prodezza: date una carabina a un ragazzo, e in capo un’ora avrà già sparato a sua sorella, a sua madre, al migliore dei suoi amici.

È necessario vincere il fascismo in noi stessi, in tutti gli animi dei concittadini: con lo spregiare, condannare, deridere e avere a schifo in noi il culto della prepotenza, il prevalere iniquo dell’io, l’ambizione “fisica” di essere al di sopra degli altri e la “fede”, tipicamente fascista, in una presunta nostra capacità di disporre del destino comune e di condurre al “trionfo” certe idee di potenza che inverdiscono soltanto, quasi un’erbaccia in un orto negletto, nella nostra capoccia di superuomini cretini o addirittura malati di malattia mentale. Così una perenne attività logica, una seria preparazione alla vita associata, una scuola efficiente, il culto del “dovere”, il rispetto del vicino e del prossimo, una onestà naturale e nativa serbata nell’animo al dispetto del costume e del tempo mi sembrano i mezzi di cui lo scrittore e il cittadino in genere dispongono per non dare “via libera” al fascismo: per combattere la diffusione, così come si combattono e si prevengono con cautele d’ogni momento (igieniche, tecniche, assicurative) i mali disgregativi e lo “sfacelo” dei traumi non preventivati».

Davvero una bella pagina che merita di essere conosciuta e che è stata resa pubblica quasi dieci anni fa, il 12 maggio del 2006, dal quotidiano La Repubblica. Una pagina che ci consegna – come tante altre – un Gadda niente affatto uomo senza qualità e, anzi, di ottime qualità. Gadda – come tanti altri scrittori del ‘900, soprattutto del primo ‘900 – era solo afflitto dal male oscuro che lo tarlava, dalla nevrosi, dal male di vivere generato da una società malata e da una realtà e da un mondo caotici e complessi, strani e assurdi, insensati e paradossali, labirintici e barocchi. E, dunque, ha ragione quando nella Cognizione scrive che barocco non è Gadda: «barocco è il mondo».

*Salvatore La Moglie, scrittore