Italo Calvino, parole che cantano
Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro
Ha corso davvero tanto la penna di Italo Calvino, dai racconti, ai saggi, agli articoli di giornale alle prose di teatro e alle sceneggiature, fino ai testi per musica. Quest’ultime, considerate da molti opere minori, testimoniano, piuttosto, alcune delle principali caratteristiche dell’ispirazione calviniana: curiosità culturale e contaminazione tra le varie forme di letteratura.
Italo Calvino scrisse testi per canzoni tra il 1958 e il ’60, periodo in cui partecipò all’esperienza di Cantacronache, un collettivo’ d’intellettuali torinesi che si proponeva di creare una raccolta di pezzi dai contenuti più impegnati da contrapporre a quelli frivoli della canzonetta del Festival di Sanremo. Sotto la guida di Fausto Amodei, vi parteciparono musicisti come Sergio Liberovici e Michele L. Straniero, e personaggi come Emilio Jona, Franco Fortini, Giulio Einaudi, Margherita Galante Garrone in arte Margot, Massimo Mila, Fiorenzo Carpi, Dario Fo, Gianfranco De Bosio che tentarono di dare un nuovo impulso creativo alla canzone italiana, ponendosi sul solco degli chansonnier francesi come George Brassens, dei repertori di Bertolt Brecht e Kurt Weill, e della tradizione dei cantastorie italiani. Al racconto della cronaca, alla quale rimanda il nome del gruppo, si affiancò la volontà di mettere in musica le storie di un passato recente da consegnare alla memoria collettiva, come la Resistenza, contestando nello stesso tempo i prodotti culturali di consumo e d’intrattenimento che trasmettevano una visione passiva e acritica della realtà degli anni del boom economico. Ben presto il gruppo si allargò coinvolgendo interpreti come Piero Buttarelli, Silverio Pisu, Mario Pogliotti, Edmonda Aldini, Glauco Mauri, Franca di Rienzo e avvalendosi della collaborazione di altri poeti e intellettuali da Gianni Rodari a Giorgio De Maria, oltre a Franco Fortini e Umberto Eco.
Il collettivo torinese organizzò anche una serie di spettacoli in teatri, cinema, circoli, sezioni di partito, sale da ballo, comizi, affrontando ogni tema della cronaca, come una sorta di resoconto canoro su tutto ciò che si stava muovendo in Italia in quella fase che abbracciava il dopoguerra e il miracolo economico. Dapprima operarono sotto la spinta dell’attivismo e dell’autofinanziamento, in seguito, si appoggiano a un editore musicale, ItaliaCanta. La produzione del Cantacronache è costituita da nove dischi a quarantacinque giri. I testi utilizzati erano ispirati dai movimenti culturali avanguardisti ma soprattutto dalle azioni di lotta popolare ed emancipazione che si tenevano in quegli anni nelle fabbriche, piazze, università e scuole italiane, mostrando solidarietà e aiuto diretto alle fasce più deboli in cerca di riscatto. Il loro presupposto era proprio quello: dare voce ad una cultura antagonista che diffondesse “discorsi esplicitamente provocatori” e che contrastasse il dominio del testo musicale su quello letterario.
Fu Sergio Liberovici, etnomusicologo e compositore, a convincere Calvino a cimentarsi e questi pare “venne preso da autentico entusiasmo” e decise anche di cantare nei cori di accompagnamento. Le canzoni di Calvino non scalarono mai le classifiche, ma alcune sono considerate punti fermi della canzone d’autore italiana legata all’impegno civile, sociale, antimilitarista, ispirato ai valori della Resistenza e furono fondamentali per la nascita di una generazione di musicisti e di cantautori, tra cui De André, De Gregori e Guccini. Un’influenza che in alcuni casi è evidente anche a livello testuale, ad esempio ne “La guerra di Piero” di Fabrizio De André:
“Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente”. De André, La guerra di Piero, 1964:
“Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar”. Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958:
Dove vola l’avvoltoio riflette il clima di tensione di quegli anni: dopo le minacce di attacchi nucleari lanciate dall’URSS contro Francia e Inghilterra durante la crisi di Suez, alla fine del ‘57 l’Unione Sovietica aveva lanciato nello spazio il primo satellite artificiale, la NATO aveva deciso l’installazione di basi missilistiche in Europa e il timore che scoppiasse un altro conflitto mondiale era molto diffuso. Il brano, che vede nella figura dell’avvoltoio il simbolo stesso della guerra e della morte, anticipò in Italia la corrente del pensiero pacifista che sarebbe esplosa anni dopo, e nutrì una coscienza collettiva volta alla costante ricerca della libertà, proiettata alla riflessione sul rapporto che lega lotta per l’ambiente e volontà di pace. Quanta attualità si riscopre, dunque, nelle vicende e nella letteratura di poco meno di settanta anni fa. Era il Primo Maggio 1958 e questa canzone risuonava per le strade di Torino, da un gracchiante altoparlante piazzato sopra una Fiat seicento:
…Dove vola l’avvoltoio?//avvoltoio vola via, /vola via dalla terra mia, /che è la terra dell’amor…/…Ma chi delle guerre quel giorno/aveva il rimpianto/in un luogo deserto a complotto/si radunò/e vide nel cielo arrivare/girando quel branco/e scendere scendere finché/qualcuno gridò:/Dove vola l’avvoltoio/avvoltoio vola via, /vola via dalla testa mia…/ma il rapace li sbranò…
L’avvoltoio vola cercando disperatamente un luogo dove nutrirsi. E vola sul fiume, ma il fiume vuole che la sua corrente porti carpe e trote e non corpi di soldati. E vola sul bosco, ma il bosco vuole suoni naturali, non spari di fucile, e vola sull’eco, ma l’eco vuole i tonfi delle zappe, girotondi e ninne-nanne, non più rombi di cannoni. Nel testo sono presenti tutte le componenti storiche della canzone popolare: dagli elementi naturali come il fiume, il bosco, l’eco, al ritmo della ballata. Immagini intense e nitide che riprendono l’allegoria che riecheggia nel racconto “Ultimo viene il corvo” del 1949 in cui Calvino descrive un episodio di vita partigiana: un avvoltoio svolazza su un soldato tedesco, prevedendone la morte. Purtroppo, quell’avvoltoio che volteggia di strofa in strofa, non solo volteggia in gran parte del mondo, ma ha ripreso drammaticamente a volare in Europa, dalle coste del Mediterraneo all’ex Jugoslavia fino all’Ucraina.
Anche Oltre il ponte riprende il tema della guerra e le tematiche de Il sentiero dei nidi di ragno del 1958, suo primo romanzo dalle tinte autobiografiche, ambientato all’epoca della lotta di Liberazione partigiana. La canzone fu pubblicata contemporaneamente in Nuovo canzoniere partigiano e in Cantacronache. Fu composta nel 1959, cantata, in anni successivi, dal gruppo musicale folk rock Modena City Ramblers, e utilizza la metafora del ponte come figura concreta del confine tra pace e guerra, tra la vita e la morte. Calvino racconta quasi un passaggio di consegne, l’urgenza di trasmettere la memoria alle nuove generazioni, quelle dei ventenni, quelli che “non sanno la storia di ieri”, perché comprendano il senso di quell’esperienza da chi l’ha vissuta, per essere pronti a combattere sul fronte dell’impegno sociale e politico, del mantenimento delle libertà democratiche faticosamente conquistate.
O ragazza dalle guance di pesca/ o ragazza dalle guance d’aurora/ io spero che a narrarti riesca/ la mia vita all’età che tu hai ora… Avevamo vent’anni e oltre il ponte/ oltre il ponte ch’è in mano nemica/ vedevam l’altra riva, la vita/ tutto il bene del mondo oltre il ponte/. Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent’anni la vita è oltre il ponte/ oltre il fuoco comincia l’amore…
La musica di Sergio Liberovici conferisce al brano un tono maestoso e marziale ma il glossario è molto vicino al parlato, lineare e penetrante. Il tema, invece, è reso con sfumature delicate, lievità e semplicità d’immagini: un ponte, una ragazza dalla pelle rosa, la natura che fa da sfondo, la speranza che l’amore vinca su ogni altro tentativo di distruzione. Non c’è alcuna retorica, soltanto un racconto fatto con il cuore, un ricordo di giorni passati in nome d’ideali, con la consapevolezza di non essere eroi.
…Non è detto che fossimo santi / l’eroismo non è sovrumano / corri, abbassati, dai corri avanti! / ogni passo che fai non è vano, mentre si conclude con l’amara tristezza di chi da solo rivive i bei ricordi del passato: ormai tutti han famiglia hanno figli / che non sanno la storia di ieri / io son solo e passeggio fra i tigli/ con te cara che allora non c’eri…
Il poeta parla alla ragazza e le racconta una storia di vita vera, vissuta durante gli anni della Resistenza. La canzone è un monito che richiama alla necessità di tramandare ai posteri una vicenda che rischia di scomparire, quando nessuno sarà più a testimoniarla. Un messaggio che attraversa stagioni, decenni, mode.
I testi di Calvino per il Cantacronache dialogano strettamente con la sua produzione letteraria coeva: significativo il caso di Canzone triste del 1958, fedele trasposizione del racconto L’avventura di due sposi, risalente al medesimo anno e ispirata alla leggenda abruzzese di Lady Hawke. Calvino narra di una coppia, entrambi operai:
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte quello che finisce alle sei… Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Il racconto diventerà un episodio del film collettivo Boccaccio ‘70 del 1961 di Mario Monicelli. Cantata da Margot Galante Garrone, sempre su musica di Sergio Liberovici, racconta di due amanti che pur abitando assieme non riescono mai a vedersi, perché uno dei due lavora di notte e torna proprio quando l’altro esce di casa. S’incontrano solo per pochi minuti, dandosi il cambio nel letto e addormentandosi negli incavi caldi che custodiscono l’odore dell’altro.
…Erano sposi, lei s’alzava all’alba / prendeva il tram, correva al suo lavoro. / Lui aveva il turno che finiva all’alba / entrava in letto e lei ne era già fuori. / E a ricordare il loro amore, soltanto un bacio…
Una storia di amore e di solitudine che fa venire in mente la pittura straniante del realismo americano di Edward Hopper. In parole e musica ci sono i ritmi di vita dettati dalla società neocapitalistica e del lavoro in fabbrica. Le immagini hanno i colori dell’intimità rubata ma non trasmettono vivacità, i gesti sono reali ma c’è qualcosa di metafisico, rimanda ad altro, a un forte senso d’inquietudine, d’abbandono, di silenzio.
Il padrone del mondo del 1959, musicata sempre da Liberovici, rimanda alle ambientazioni e al protagonista di Marcovaldo, a quella mescolanza di quotidianità e invenzione fantastica, condita di sottile ironia verso la civiltà dei consumi, frenetica e distratta. Il protagonista è un ciclista che, pedalando sulla sua bicicletta di buonora, assapora la bellezza di una città ancora addormentata, facendoci rivivere le sue emozioni. E’ una canzone “giocata sulla rivendicazione della libertà individuale”, composta di lunghe frasi, quasi declamate su uno scarno accompagnamento musicale. Ciascuno di noi ha in mano le leve della propria felicità pubblica e privata. Siamo noi che contribuiamo alla storia dell’umanità con i nostri gesti quotidiani, a noi spetta il compito di non lasciarsi risucchiare dalla frenesia moderna, mantenendo viva l’intima connessione con la natura e i ritmi naturali:
Sono io
il ciclista che passa per strada al mattino sul presto cantando
mentre voi vi girate nel letto destati al penultimo sonno
quel canto che non fate in tempo a sentirne la fine e si perde
e non siete riusciti a capire se canto per gioia o per rabbia:
io sono il padrone del mondo, ah! il padrone
e basta che alzi una leva e vi spengo la luna.
Ridò fuoco al sole buttandoci dentro il carbone,
so leggere bene le stelle e c’è scritto: la la la la.
Sul verde fiume Po inserita nel Cantafavole, estensione di Cantacronache, filastrocca politico- ecologica musicata da Fiorenzo Carpi, in cui i sette amici dell›inizio della storia diminuiscono uno alla volta allettati dai diamanti, dal petrolio, dalle armi, dallo show business, dalla carriera politica, da un matrimonio facoltoso. Alla fine il protagonista rimane solo: “ero il solo ad esser felice/e gli altri sei non so”. Il linguaggio è semplice, con elementi colloquiali e la struttura della filastrocca popolare propria di tutti i paesi, interamente basata sull’anafora, sul parallelismo e sull’enumerazione.
Altri titoli furono Turin la nuit, Quando ricordiamo, La tigre e il racconto mimico Allez-hop di cui è protagonista una pulce. Turin la nuit ha un doppio titolo perché Calvino, forse, non voleva rinunciare anche all’evocazione della sua amata Torino: la intitola, infatti “Turin la nuit o Rome by night”, giustamente associando le due diverse lingue alle due diverse città; qui la musica è di Piero Santi; la canzone è molto rara, perché non è mai stata incisa su disco. Ancora più inedita è “La tigre”, nel senso che la musica di Mario Peragallo si è persa. “Quando ricordiamo”, invece, è un brano tratto da “La vera storia” di Luciano Berio, il quale vi lavorò dal 1977 al 1981, debuttando alla Scala nell’82 con Milva protagonista, e poi rappresentato anche all’Opéra di Parigi. Sempre agli anni Cinquanta, risale l’inizio della collaborazione più rilevante del Calvino librettista, quella con Luciano Berio, con il “racconto mimico” Allez-hop, scritto tra il 1952 e il 1959, rappresentato per la prima volta presso il Teatro La Fenice nell’ambito del XXII Festival Internazionale di Musica Contemporanea del 1959. Anche in questo caso è evidente uno strettissimo legame tra il testo per musica e la produzione letteraria di Calvino, poiché la pulce protagonista della pièce proviene da un capitolo de Il barone rampante.
Qualità comune a tutte le canzoni è certamente il realismo che si rivela nella scelta di temi civili, quanto mai attuali: pacifismo, condanna del razzismo e della guerra, del consumismo, rispetto per la natura. Ognuna narra con malinconia e disincanto un aspetto della società e della vita, tutte “però hanno qualcosa che le distingue, una marcia in più e te ne accorgi anche per la perfetta fusione con la musica dalla tonalità popolare, ma intensa, carica di emozioni, ma contenute, come è nello stile dello scrittore” spiega Azzolini. Le parole sono comprensibili e la musica “sostiene e rinforza, con mezzi assai semplici, quello che le parole, anch’esse necessariamente semplici, dicono già in maniera esplicita. Calvino cercava, sperimentando nuove forme espressive, di dimostrare la duttilità della scrittura letteraria che doveva porsi al servizio non solo del lettore impegnato ma anche di un pubblico più vasto e culturalmente variegato, in nome di quella “leggerezza pensosa” che vuole dire avvicinare ad argomenti che sembrano lontani, senza cadere nella trappola del qualunquismo o della vaghezza. Un paroliere a caccia della vita, dei suoi valori e delle contraddizioni del tempo: “Trasformare dei fatti in parole non vuol dire cedere alla retorica dei fatti, né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla”.
*Fiorella Franchini, giornalista