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Mare (quando i sogni muoiono all’alba)

Quello del porto è un odore speciale: una fragranza che s’accompagna col respiro del mare, un aroma di putrido e di sole, di gelsomini rampicanti appena fioriti e di catrame.

Il mare lo trovi proprio alla fine dello stradone trafficato. Te lo segnalano le palme, dritte come frecce. E i piedi obbediscono, arrivano fino al porto. Qui sostano i vecchi pescatori, sempre, a qualsiasi ora: sia che il mare cozzi contro il cielo con la fronte bassa da animale preistorico, sia che innalzi le sue creste fino alle nubi. A tempo perso, i vecchi pescatori giocano una partitella a carte, ingannano l’attesa fumando una sigaretta, seduti su fusti di latta, aspettano che tornino dal mare i giovani, quelli che hanno ancora la forza di sfidare il dinosauro.

Anche io oggi mi sono alzato prestissimo, per vedere l’alba, e il mare.

I pescatori che non vanno più per mare possiedono facce sciupate, mangiate dal sale, scavate dal sole, mani e piedi deformati dall’acqua. Sono vecchi che forse non sono mai stati giovani; ma anche i giovani, quando scendono dalle barche, non potresti dirli davvero tali.

Il mare mangia, consuma, alleggerisce, scava. Fa così da secoli, in una lotta con le conchiglie – che riduce a sabbia – e con i fiumi che gli scorrono dentro – e non riescono mai a mutarlo –. Il mare è salato e come il sale ferisce, taglia.

Tra gli anziani che aspettano al porto, il più vecchio di tutti è Remo. Ha un’età indefinibile, da patriarca biblico: è smilzo, basso come uno gnomo, possiede due occhi acuti, appena nascosti dalla coppola che indossa ben calcata sulla calvizie evidente. Tutti i giorni se ne sta lì, pronto.

Da anni Remo non esce più: guarda l’orizzonte, aiuta a rammendare qualche rete, scambia due parole con gli amici di sempre. Più che altro respira l’odore del mare. Mi spiega che il rumore della risacca, che sente dalle finestre di casa sua, non lo fa dormire, è come un richiamo. Per questo, si alza quando ancora è buio e va subito sul molo, per vedere il mare.

Stamattina è insolitamente ciarliero – in genere se ne sta chiuso in un mutismo ostinato –, insiste per parlare proprio con me. Mi dice: «Professo’, tu sei uomo di terra; si vede da come cammini e da come guardi il pesce… Io il pesce lo conosco bene, conosco tutto delle correnti e del tempo.» S’interrompe, mi squadra, mi confida: «Ho imparato a riconoscere quando le nuvole scendono a mare.» Si stringe nelle spalle ossute. «Adesso non serve più. Guardano il telefonino e leggono le previsioni.»

Tace. Guarda i pescherecci che tornano al porto, si accostano al molo. Aspetta che le barche abbiano attraccato. Dentro sono piene di pescato, lo si vede dalla linea di galleggiamento. Scendono i pescatori, s’avvicinano. Io e Remo siamo gli unici sulla banchina con la barba fatta. Ma la faccia di Remo, al contrario della mia, è sempre quella di un pescatore: cotta dal sole, rugosa di sale, gli occhi piccoli che ne hanno bevuto, di acqua.

Una volta che le gomene sono assicurate alle bitte, tutto si anima. Il pesce esce dalla stiva, viene impilato sulla banchina. Perfino i compratori aiutano. Remo s’infila qui e la, intralcia con testardaggine i movimenti di quelli che lavorano e hanno fretta. Si avvicina ad ogni cassetta, ne scruta attentamente il contenuto, valuta numero e valore del pescato.

I pesci sono già stati separati in mare. Così, le cassette sono belle e ordinate: rosa iridescente le triglie, rosso violaceo il totano fresco, lo scorfano spicca nel suo rosso pompeiano, lo sgombro è blu argentato, le pannocchie trasparenti fanno storia a parte nelle cassette bianche e arancioni.

Dal bottino di ogni pescatore, Remo prende un pesce, uno solo. Non prende i pesci pregiati ma quelli poveri, negletti, che i pescatori conoscono e i ristoranti disprezzano. «Sono ottimi per la zuppa,» mi confida.

Con eleganza preleva dalle cassette uno sgombro, un totano, una triglia, uno scorfano; qualche rara volta, se il bottino è abbondante, prende una pannocchia: la guarda attentamente per vedere se è una pannocchia femmina, perché «Se è femmina ed ha le uova, è più gustosa.»

I marinai lo lasciano fare. Tra il rumore del mare e il vocio della contrattazione – prezzi, sconti, richieste, proposte – continuano il lavoro di scarico, preparano il pesce per la vendita al dettaglio.

Remo allinea il suo bottino in fila sul muretto, tira fuori dalle tasche una busta di plastica e, con attenzione, come stesse ancora svolgendo il suo antico lavoro, adagia i pesci sul fondo della busta. Qualcuno guizza, agonizzante: bene, la zuppa sarà più succulenta.

I pescatori e i sensali continuano il loro lavoro. Il vecchio pescatore mi saluta, bofonchia qualcosa su un appuntamento per l’indomani – ha ancora tante cose che vorrebbe raccontarmi – e, con la busta che gli penzola tra le mani, riprende la strada di casa. Forse, è orgoglioso del rispetto che gli altri pescatori provano per lui. Forse, pensa alle alzatacce quotidiane.

Mentre lo vedo andar via, penso a quell’andare e tornare, penso al mare che alla fine ti confonde la vita e non sai più se sei sulla terraferma o se cammini su una zattera.

Remo non conosce Omero, non sa niente del mare cupo vinoso, della terra che il poeta immaginava come una zattera sospesa nell’abbraccio del padre Oceano. A casa, pulirà il pesce per la zuppa. Lentamente, molto lentamente. Dal mare ha imparato a non avere fretta. Con saggezza di vecchio, mi ha detto: «Il sole spunta sempre, il giorno dopo. E i banchi di pesci si mischiano e si confondono, proprio come fanno gli uomini sulla terra.»

Il mercato volge al termine. Le ultime partite di pesce vengono caricate sui furgoni. Sulla spiaggia si alzano mulinelli di sabbia. Qualcuno accende una sigaretta. In breve c’è solo il muggito del mare, il lamento delle cose che sono lì da sempre: la gioia, la vita e la morte che si rincorrono, ondata dopo ondata.

 In un attimo il molo è vuoto.

Andiamo.

*Patrizia Tocci, scrittrice