Fa un caldo infernale! E gli NFT non aiutano…
Il viaggio di Francesca Anedda alla scoperta del fenomeno NFT e arte
Il mio viaggio alla scoperta del fenomeno NFT e arte continua su questo numero di Verbum Press, dedicato ai cambiamenti climatici, cercando di comprendere una delle accuse più diffuse verso questa nuova tecnologia: la scarsa sostenibilità ecologica.
Ancora una volta mi incammino in questo percorso con la stessa serenità di Dante nella prima cantica della Divina Commedia, l’Inferno.
Le informazioni disponibili in rete sono pressoché di due tipi:
– Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: “gli NFT consumano troppa energia.”
– Maestro, il senso lor m’è duro: “gli NFT consumano troppa energia in quanto il mining per risolvere l’hash necessita di enorme potenza di calcolo. L’algoritmo di controllo PoS potrebbe però sostituire il PoW. ”
Ma siccome fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscienza, proverò a spiegare in maniera semplice ciò che (forse?) ho capito.
NFT non è una forma d’arte
Iniziamo da un concetto tanto elementare quanto frainteso: con il termine NFT non si intende né una forma d’arte (alla stregua di pittura, scultura, murales, incisione, etc.) né uno stile (figurativo, concettuale, astratto, dadaista, etc.). Si tratta invece di una serie di informazioni digitali inserite su blockchain (token) che non possono essere modificate né riprodotte (Non-Fungible-Token). Una tecnologia, quindi, che applicata all’arte digitale permette di autenticare un’opera altrimenti facilmente riproducibile e di registrarne la proprietà in caso di vendita.
Tutto molto bello. Ma cos’è la blockchain?
La blockchain è un registro digitale condiviso (quindi accessibile a chiunque) e non manipolabile, che si può immaginare appunto come una lunga catena, sempre in crescita, di blocchi contenenti informazioni. Non è soggetto ad un controllo centrale, motivo per cui per unire un nuovo blocco alla catena è stato necessario ideare un protocollo di sicurezza protetto da un codice crittografico (hash) che è paragonabile ad un difficilissimo enigma da risolvere.
Miners: i minatori del XXI secolo
Coloro che risolvono questi puzzle crittografici, permettendo la creazione di un nuovo blocco della catena e confermando i dati (transazioni) al suo interno, vengono definiti miners. Perché? Perché la risoluzione del codice crittografico viene premiata con l’erogazione di bitcoin (che vengono creati in quantità limitata, simulando la disponibilità delle risorse auree del sistema economico tradizionale). Così come i cercatori d’oro del Klondike, sempre più persone si sono buttate nell’impresa e alcuni di loro sono diventati i nuovi Paperon de Paperoni.
Quando arriva la parte sugli NFT e la sostenibilità ecologica?
Adesso. La risoluzione dei codici crittografici e quindi l’aggiunta di un nuovo blocco alla catena necessitano di grande potenza di calcolo. Non immaginiamoci quindi i miners a risolvere questi codici sulle lavagne: utilizzano delle macchine tanto potenti quanto energivore che, in aggiunta, devono essere costantemente raffreddate da ventole.
Ciò avviene anche ogni volta che un’opera d’arte digitale viene caricata su un Marketplace (piattaforma di vendita) e venduta. Infatti il blocco con le transizioni relative alla creazione e vendita dell’opera deve essere unito alla blockchain col sistema di cui abbiamo parlato sopra. Si stima che per la creazione, il minting (pubblicare in modo univoco il token sulla blockchain per renderlo acquistabile), effettuare e ritirare un’offerta, acquistare e trasferire la proprietà di un solo NFT il consumo di energia elettrica sia di circa 340 kWh con la corrispondente emissione di 211 Kg di CO2. Più o meno quanto il consumo di energia di un cittadino europeo nell’arco di un mese. Moltiplichiamo questi numeri per tutti gli NFT prodotti finora (di cui la maggior parte sono di livello “Garpez”, ossia il mio falegname con 30mila lire la fa meglio) e capiamo che l’impatto ambientale di questo trend non è affatto sostenibile. Nemmeno se per ogni NFT viene piantato un albero. Nemmeno se si nascondono i server nelle zone più rurali e povere del pianeta. Nemmeno se i server vengono alimentati con energia rinnovabile costringendo gli abitanti di quelle zone ad utilizzare energia non rinnovabile.
Un problema per ogni soluzione
Mettere la testa sotto la sabbia e tacciare gli ambientalisti come petulanti ci ha portato a toccare con mano il dramma dei cambiamenti climatici. Per cui mi pare doveroso pretendere che le soluzioni del futuro tengano conto della sostenibilità ambientale e sociale, per poter sopravvivere.
Da anni si stanno cercando e applicando delle alternative al protocollo di validazione della blockchain che abbiamo descritto (e definito Proof of Work). Una di queste è il protocollo Proof of Stake nel quale il compito di unire i blocchi non viene più assegnato ai miners, che competono tra loro per risolvere il complesso puzzle crittografico, ma a dei soggetti che per dimostrarsi affidabili bloccano una certa quantità di coin nel proprio portafoglio digitale. Questi soggetti vengono scelti casualmente, ma ovviamente chi ha più coin bloccati (leggi: chi è più ricco) aumenta la propria possibilità di essere selezionato. In questo modo il consumo energetico sarebbe quasi azzerato, ma verrebbero meno la democraticità ed equità del sistema blockchain e si tornerebbe alle vecchie logiche lobbiste dell’economia tradizionale.
Il problema si può quindi ritenere tutt’altro che risolto, ma il dato positivo è l’alto interesse nel trovare una soluzione che tenga conto della sicurezza, della democraticità e della sostenibilità ambientale.
…e quindi uscimmo a riveder le stelle?
*Francesca Anedda, storico dell’arte