VerbumPress

Bruno Di Pietro “il profeta delle forme”

Di Pietro è un profeta, un anacoreta delle forme in cerca di fede, la nostra fede

C’è un tempo unico, un insieme, un filo genetico che tiene legata dall’inizio alla fine tutta la produzione artistica di Bruno Di Pietro, quasi fosse una traccia, una cifra individuale che fa di tutte le sue opere un unico racconto, una raccolta strutturata, esplicita e coerente, come avrebbe detto il semiologo svizzero Ferdinand de Saussure. Tuttavia questo repertorio appartiene più alla semiologia, mentre invece qui vorrei mutuare il discorso con le parole di un altro grande, il saggista francese Gilbert Durand, parlando di strutture antropologiche di un immaginario primario, fitto di archetipi, di intervalli segnici, di lineamenti primordiali, di grafie che conciliano e si riconciliano nello spazio di un tempo sintetico, che sottendono la genesi della forma come un’epifania del racconto, che racchiudono l’infinito nell’apparenza del tutto finito. Si tratta difatti, di comprendere, al di là dei racconti e dei temi, quelli che sono stati gli archetipi primari del suo linguaggio, i punti perimetrali entro cui Di Pietro ha agito, operato lungo il corso di un’intera esistenza, messo in scena il suo dato prospettico.  Mi spiego meglio per non essere frainteso: Bruno Di Pietro è un artista con una lunga storia alle spalle che inizia dai lontani anni ’60 all’ombra di grandi maestri come Pompeo Borra e che matura con il passare dei decenni (anche sul piano internazionale con i suoi frequenti viaggi) in un percorso intimo sempre più originale e distinto dagli altri grazie alla sua ansia di sconfinamento. Come tanti, all’inizio, Bruno Di Pietro ha dipinto figure semplici, forme naturali, animali, alberi, paesaggi e più in là si è perfino misurato con l’archeologia e la mitologia classica, lasciando tuttavia dietro di sé sempre una scia filamentosa, una cifra, un segno che lo ha reso riconoscibile a tutti. La sua stretta logica di incisore (sviluppata virtuosamente a Parigi, tanto da essere chiamato il Dürer italiano), la mano forte consumata a maneggiare il bulino, la capacità sviluppata di narrare molto con poco, di occupare lentamente lo spazio con dinamismo, di costruire architetture di gesti con sapiente equilibrio, lo ha fatto crescere e di molto. La disciplina severa dell’incidere, il rigore del segno, l’attenta esecuzione dei processi di stampa, la linearità ascetica delle forme, hanno fatto del suo percorso nell’arte un viaggio quasi iniziatico. Ed è per questo che, ricomponendo tutti gli elementi tematici pregressi, mi vien da dire, che Bruno Di Pietro ha sviluppato negli anni, in una Gelstat unitaria e complessiva, i sogni adolescenziali più emergenziali, tirando fuori i suoi segni distinti come per una patologia originariamente confusa tra una fine temuta e allo stesso tempo desiderata, banalizzandola, negandola, sfidandola e giocando la sua partita d’artista come in una roulette russa, sulla scia di un’indifferenza emozionale e un freddo calcolo probatorio (Eugenio Borgna). Attratto dalla sua personalità dicotomica Bruno Di Pietro è anche poeta, cosa che all’apparenza suona come una contraddizione per uno come lui, ma che tale non è. Il poeta russo Josip Mandel’Stam costruiva i suoi sonetti con assoluta precisione matematico-chirurgica; egli ripeteva i suoni lirici come un orchestrale, batteva il tempo delle sue parole come un direttore d’orchestra, nutrendosi di fuoco ma sputando acciaio. Processo similare adottato anche da Bruno Di Pietro nel suo fare artistico, quel modo in cui incaglia i suoi racconti nella temperie musicale e che nel contempo li ordina con rigore ingegneristico come fa il compositore con le note distribuite sullo spartito. La sua pittura è metafisica come quella di Mondrian, ma leggiadra come quella di Legèr; distribuisce lo spazio per masse sinfoniche come Malevič, ma poi ironizza il tempo come Depero: è uno Schönberg e uno Stravinskij insieme. In altre parole, Bruno Di Pietro vive il rischio della pittura con la consapevolezza della caduta e della salvezza, della finitudine del gesto e dell’ampio orizzonte a cui destinarlo, del tempo finito e quello che potrebbe ancora proseguire verso un Altrove. Per dirla con Gaston Bachelard, il tempo è una realtà racchiusa nell’istante e sospesa tra due nulla: ecco perché ritrovo in questa pittura le ragioni primarie di una metafisica compressa, di un’economia dell’essere presente e assente, dell’agire fuori e dentro di sé. “Il tempo – scrive ancora lo scienziato-antropologo francese Bachelard – potrà senza dubbio rinascere, ma dovrà prima morire: non potrà trasportare il suo essere da un istante all’altro, per farne una durata”.E allora veniamo alle opere dell’oggi, quelle che Bruno Di Pietro presenta in questa mostra in forma inedita, e che rappresentano quell’hic et nunc di cui si accennava sopra, quell’emergenza esistenziale dell’essere/esser-ci, ossia il qui-ora di heiddegeriana memoria, quel darsi come epifenomeno della materia che si fa materia-altra che trasmuta alchemicamente nell’Oltre e che trasmigra verso nuovi orizzonti. Sembrano muri occlusivi questi pannelli dipinti, rifulgono come superfici non colloquianti; ci appaiono come sorde pareti afone, come telai respingenti e senza memoria, come spazi senza spazio. Le meccaniche (tubi, ferri) che arricchiscono di senso queste tele sembrano vagare nella superficie come i personaggi del teatro dell’assurdo di Artaud, sono fredde come le “macchine celibi” di Duchamp, crudeli e distaccate come quelle di Tanguy, ossessive e primitive come quelle di Kounellis. Eppure, non ci accorgiamo che Bruno Di Pietro, oggi più di ieri, costruisce i segni del suo tempo con la ferrea logica di un antico ingegnere, capace a far di calcolo e di soppesare il racconto nel tempo breve dello spazio a lui concesso, distribuendo i carichi nel precario equilibrio di una rima poetica come avrebbe fatto Ungaretti nell’introverso sintetismo ermetico. Una meccanica compiacente sottostà alla pura visibilità di queste opere come la bellezza di una Nike di Samotracia sta alla sfolgorante lucidità di una macchina lanciata in corsa di marinettiana memoria. Può sembrare un ossimoro parlare di metafisica dinamica, ma questo è il mondo che Di Pietro consegna al nostro tempo. Ciò che l’artista restituisce al mondo è il segno di una coscienza attiva, capace di rendersi liricamente composta, ma anche ipoteticamente ribelle, come quando si pone di fronte ai grandi temi della nostra epoca parlando di Covid, di ambiente, di crisi energetica, di catastrofe naturale, di fine dell’universo con opere quali il trittico Oxygen in ripetute serie. Scrive l’artista nel suo manifesto Oxygen: “Vorrei si riuscisse a leggere nel loro simbolismo i miei lavori cosi come ad interpretare quel mio pensiero filo-artistico con i tubi acciaiosi e flessibili che nell’opera collegano l’uomo-maschera all’albero dove questi vanno a completare il messaggio di un uomo che per completarsi nell’essere attinge naturalmente alla preziosità dell’albero e a quella naturale funzione ossigenante vitale che essa emana”. La sua coscienza di artista-ambientalista come Beuys, lo porta ancora ad affermare: “La mia idea è che se l’uomo non torna al rispetto della natura, alle acque e a quel prossimo suo ne consegue certamente una vita di stenti, miserie, virus e di conseguenza sarà sempre più difficile potersi cautelare vuoi chimicamente che con mezzi e sistemi tecnologici come depuratori e filtranti vari in un vortice perverso e sempre più problematico per tutti, cosi come il doversi proteggere da elementi climatici (disboscamento, siccità e così il riscaldamento globale) innescando sempre più una estenuante ed impari lotta per la sopravvivenza energetica-alimentare. Volendo fare una riflessione cronologica uomo-natura fin dai primordi al primo stadio vi è posta quella saggia e meravigliosa evoluzione biologica come l’albero eletta ad icona di vita che insieme all’acqua sono fonti primarie et indispensabili come l’ossigeno. Quindi dopo l’albero con la sua preziosa biodiversità dovrebbe esserci l’uomo in quel presunto ordine cronologico compiuto su questo pianeta ma, questo essere sapiens conscio (in quanto intelligente) di un inizio nel perdere quel connubio millenario con il suo habitat si propone e interpone una presuntuosa tecnologia sperimentale spesso occasionale con un fare opportunistico inquinante  e distruttivo (vedi pesticidi e ciò che ne consegue per le api e le acque) e così le tante dissennate guerre attualmente per il mondo, tutto quanto pur di continuare a concedersi sempre più una ostinata sopravvivenza egoistica incurante di un futuro prossimo”. Non è poca cosa tutto questo riflettere con lucida e partecipata nostalgia ciò che è e ciò che potrebbe diventare la realtà che ci circonda senza che l’arte non ponga un freno, un limite, che non alzi un grido d’allarme, che non dica le cose come stanno realmente. Mi impressionano in tal senso le sue “nature”, quei filamenti naturali rappresentati in forma vivente, come ad esempio nella tela “Bosco rosso” o in “Terra” dove, senza inizio né fine sembrano scendere o salire racemi di una selva fitta come quella di Pier delle Vigne nel XIII Canto dell’Inferno dantesco (vv.70-72). L’osservatore non sa da quale parte procedere con lo sguardo, ma sente di essere parte attiva del quadro, di essere al centro dell’opera come a suo tempo disse Umberto Boccioni. L’immanenza dell’atto è rapida e si consuma nei pochi secondi in cui l’occhio di chi guarda percorre in su e in giù la superficie del quadro come a voler cercare il tempo ritmico della narrazione, la meccanica segreta della macchina gioiosa. E’ tutto un procedere per scatti, un logico ascetico cammino verso la luce, uno svelamento del tempo della speranza, perché, e questo sia chiaro per tutti, Bruno Di Pietro è un profeta, un anacoreta delle forme in cerca di fede, la nostra fede, quella che non possiamo non concedergli in questo atto di coraggio.

*Alessandro Masi, critico