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Un progetto di riuso industriale dal gran sasso al tirreno

Premiata neo-laureata abruzzese per una tesi di rinascita polifunzionale della fornace, dismessa 40 anni fa a Scauri (Lt)

Arriverà dagli Appennini, per la desueta Fornace Sieci, il progetto di riuso, atteso da 40 anni a Scauri (Lt)? Intanto, all’Aquila, l’università ha premiato un articolato programma di riabilitazione socio-culturale dell’antichissima fabbrica di laterizi, attiva tra il 1970 e l’84, quando ne fu dichiarato il fallimento proprietario. L’immobile – ormai un rudere di archeologia industriale –  è prigioniero negletto della cinta urbana, cresciuta negli anni del boom dell’edilizia speculativa e disordinata lungo i 4 km del litorale pontino, con cui l’impianto – meglio, i suoi resti in deliquio su quasi 3 ettari – non ha quasi più relazione. 

E al prioritario consolidamento della struttura si applica l’abbrivio progettuale della 29nne abruzzese Irene Rugghia, laureata dal prof. Renato Teofilo Giuseppe Morganti, 2 anni fa nel capoluogo abruzzese. Il piano è tra le menzioni speciali dell’ottava edizione del premio “Luigi Zòrdan”, vetrina dell’eccellenza architettonica ed ingegneristica. L’intervento della giovane professionista si orienta ad una riqualificazione comunitaria della fornace, per attrezzarvi spazi ricreativi, polifunzionali, associativi, culturali, artistici e sportivi. Un contenitore di servizi al tempo libero, per un suo sfruttamento positivo, che possa svilupparsi tra previste passeggiate green; piste ciclabili; piazze aggregative; sale-lettura; piano-bar; moduli per la proiezione e la convegnistica; fiere e mercatini tipici, lungo una filiera della condivisione e della sostenibilità. Nel progetto si privilegia il raccordo tra l’edificato residenziale e il mare, sostenendo la vocazione turistica balneare del posto ed affiancando i cittadini nella quotidianità fuori-stagione, strizzando gli occhi alla wellness, diversamente declinata nella scansione delle componenti anagrafiche del territorio. 

Insomma, un’esaustiva versatilità logistica alla base dello studio progettuale. «Vero e proprio atto d’amore per la spiaggia di Scauri, meta delle estati di vacanza domestica al mare», raggiunto  – insolitamente per gli abruzzesi, legati, infatti, alle loro coste regionali adriatiche –  dalla Valle Roveto, patria di confine con la Terra di Lavoro dell’ing.-arch. Irene Rugghia: «da bambina sempre piacevolmente emozionata alla visione delle ciminiere degli opici dismessi del tardo Ottocento, intorno ai cui ruderi alimentavo la mia fantasia di mondi persi», chiosa la giovane professionista, premiata fors’anche per aver dato sbocco concreto oggi alla sua “favola” puerile sulle Sieci abbandonate. Giacché, in 40 anni, iniziative per ridar tono all’insediamento non sono mancate; neppure sono mancati coraggio ideativo e stanziamenti. A proposito dei quali, in particolare, da rubricare la perdita di cospicui fondi milionari, sicuramente sufficienti a restituire eminente vitalità alla struttura, colpevolmente inutilizzata e ammalorata. Dunque, destinata a ricacciare in archivio una pregevole tradizione produttiva dell’antichità romana locale. E’ l’epoca cui ritrovamenti epigrafici e documentali ascrivono la fabbricazione di laterizi sul litorale, utilizzando il Tirreno come materia prima di lavorazione. Si proseguì specialmente nell’Unità d’Italia, con l’arrivo a Scauri di ben 4 fabbriche di laterizio, peraltro confermato da 2 piccoli invasi di creta tra Minturno e Penitro, evidenti segmenti della catena di lavorazione. Eppoi, le fiorentine Sieci a dar smalto al settore con un ragguardevole portafoglio- esteri, esaltato dall’export verso l’Argentina, innanzitutto. Ma anche la sua crisi e l’addio occupazionale e produttivo nei primi anni ’80 del secolo appena alle spalle. Occasione per l’estenuante dibattito di oggi sull’auspicata rinascita del sito, prima candidato – sempre senza successo, però –  ad un’offerta dell’università di Cassino; ad un approfondita analisi grafico-mensurale de’ “La Sapienza”; quindi, ad un utilizzo esclusivo a verde urbano su 15mila metri quadrati alle spalle dello stabilimento chiuso. Criticità, che sembrano conferire una fiducia nuova ora nel programma della giovane professionista, impalmata dall’ateneo aquilano. 

Operazione (da 4-5 milioni di euro, tanto meno di un allettante contributo europeo, perso anni fa dall’amministrazione pro-tempore), che privilegia abbattimenti soft, sostituiti con vuotamenti logistici da pannelli monocromi, strutture in acciaio e giochi di capriate e coperture sostenibili, con sfruttamento di luce naturale ed aperture a vetrata. Tutto, condotto in perfetta anastilosi e in armonia con il contesto di inserimento, le originarie dinamiche architettoniche e la destinazione d’uso deli spazi, ricavati a moduli seriali quadrati e rettangolari, nella fondativa articolazione produttiva del 1970. Questi ultimi, rivisitati adesso come unico perimetro di vasi volumetrici a perdita d’occhio, sovrapposti su un triplice livello ascensionale. Il primo orizzontale, deputato alla fruibilità aerobica tra la ciminiera e il vecchio pontile di attracco portuale per il carico commerciale delle lavorazioni. Poi, salendo di livello, un’area della pausa di ristoro e di intrattenimento engagé. Con incavi green a terrazzo pensile ed ampi orizzonti all’esterno. Fino alle sommitali panoramiche e volte all’impiego sociale, convegnistico, polifunzionale. Focus, un invocato museo del laterizio, connesso a working-room, gallerie, servizi di comunità, comprensibilmente dotati di accessi privati per le personali esigenze. 

L’attenzione progettuale si distribuisce tra la salvaguardia delle origini insediative; la valorizzazione delle suscettività e la plasticità di prospettive, aperte a cangianti scenari, imposti dall’evoluzione delle dinamiche collettive. Strizzando l’occhio, però, anche ad una potenziale condivisione comprensoriale, tale da interessare al destino delle Sieci non la sola società residente, i suoi innesti stagionali, ma anche spaccati di una domanda, indotta magari da una richiesta esterna del circondario a corto-medio raggio. Perché la fungibilità del posto ad antologia antropologica dell’evoluzione territoriale potrebbe costituire occasione di godimento partecipato. 

Forse l’amministrazione di Minturno è da sempre richiamata, in particolare, da volontari e studenti, da stakeholder a vario titolo, intenzionati a dare una svolta aggiornata al vecchio manufatto sopravanzato. Un eccesso di stimolazione da aver potuto provocare stordimento fino ad intorpidimento; ma forse proprio tanto interesse, tanta curiosità, tanta sollecitudine hanno dato solido fondamento al competente studio della professionista, premiata all’Aquila. Nemo propheta in patria?

 Nel caso, all’università il merito di aver favorito il dialogo tra amministrazioni e professionisti di territori distanti, per una collaborazione progettuale ed ideativa, in grado di potenziare il ruolo delle energie intellettuali più fresche. Come si registra nel panorama dell’offerta rifunzionalizzatrice, possibile sulle vestigia di testimonianze, ormai mute, del nostro sviluppo produttivo anche più gagliardo, in termini occupazionali e tecnologici in relazione ai tempi e alle conoscenze. Occasione, per dare progressività verticale alla moderna formazione e alle espressioni più vivaci della qualificazione accademica. Soprattutto in questa fase di riposizionamento ecosostenibile degli standard di attività progettuale e cantieristica esecutiva, per stare al settore edilizio. 

Perché è stato riconosciuto che il “fare” adesso contiene segni di un diverso immaginario: in parte, eredità del passato – nel caso delle fornaci di Scauri –  suscettibile, però, di impostare aggiornate triangolazioni tra quadro economico, contesto operativo (in cui convergono didattica; idea professionale; applicazione di progetto, di materiali e di costruzione) e spazio urbano-architettonico.

*Paolo Rico, scrittore