L’Abruzzo e il Risorgimento, una storia tutta da raccontare
Dai moti all’unità d’Italia: storie di patrioti
La Storia ufficiale insegna che nella regione d’Abruzzo, durante la fase risorgimentale, si sia avuto un atteggiamento per così dire passivo non registrandosi alcuna grande sollevazione popolare in senso favorevole alla libertà paragonabile a quelle di tante altre regioni italiane come ad esempio la Lombardia e la Sicilia. Ciò̀ nonostante, anche la terra d’Abruzzo non è stata avara di patrioti e di associazioni rivoluzionarie che divulgarono le idee di apertura liberale e di indipendenza specie in quei brevi momenti di libertà che si ebbero nel 1821, 1831 e 1848. Una rilevante sommossa ci fu nel 1837(anno in cui nel napoletano infieriva il colera) nella città di Penne guidata dagli appartenenti alla setta della Giovane Italia le cui riunioni segrete si tenevano soprattutto nella casa della famiglia di Clemente De Caesaris. La rivolta, però, fu spenta in breve tempo: alcuni insorti riuscirono a fuggire, altri furono fucilati nelle piazze pubbliche, altri furono condannati alla reclusione o all’esilio. Un’altra insurrezione ci fu nel 1841 nella città dell’Aquila guidata da alcuni nobili cittadini tra i quali ricordiamo il Marchese Dragonetti e il Barone Coppa. Degli insorti ben 56 furono i condannati alla reclusione o all’esilio e 4 i fucilati. Nel gennaio del 1848, a seguito della sommossa di Palermo, re Ferdinando di Borbone fu costretto a concedere la libertà di stampa e a promettere a tutto il Regno la Costituzione. Questa notizia fu causa di grandi feste e di grandi baccanali. Nelle nostre città abruzzesi si costituirono subito dei comitati, chiamati alcuni dell’ordine, altri d’azione che con diversi mezzi mirarono al riscatto della Patria e si fondarono dei giornali che seguirono l’andamento dei tempi. A Chieti nacquero: l’Eco del popolo, la Maiella e il Monte Amaro, l’Età Nuova e il Secolo, la Guardia Nazionale e la Costa Careta.
Nella città teatina la notizia dei casi di Napoli e la promessa della concessione di una libera costituzione politica pervennero nella domenica del 30 gennaio. L’indomani vi fu una prima dimostrazione con a capo i fratelli Silvino e Fileno Olivieri ed altri giovani venuti fuori con una bandiera tricolore, i quali percorsero tutta la città con festevoli grida di “Viva l’Italia” e “Viva la Costituzione”. Nei giorni che seguirono molti furono coloro che ebbero il coraggio di esporsi pubblicamente e di predicare in mezzo a Largo del Pozzo (oggi Piazza Valignani) a favore della Costituzione e della libertà e contro Monsignor Saggese, allora Arcivescovo della città. Questi aveva una sola mira: quella di avere tutti a lui sottoposti, di dominare dovunque, di essere in una parola un governatore con pieni poteri. E lo era certamente, giacchè quel che desiderava di certo otteneva tanto che scherzosamente re Ferdinando II soleva chiamarlo il “Vicerè degli Abruzzi”. Egli fino ad allora si era avvalso di ogni mezzo per soffocare le idee liberali, coadiuvando efficacemente i magistrati e la gendarmeria nella scoperta dei reati politici. Dinanzi a lui nei giorni che seguirono si presentò una commissione di liberali con a capo il Dott. Vito-Colonna che impose all’Arcivescovo di richiamare i Padri missionari, appartenenti all’ordine di Loyola, i quali andavano predicando per i paesi della provincia incutendo spavento nelle popolazioni. Il Saggese, pur non avvezzo a cedere, fu costretto a sottostare alle ingiunzioni fattegli e richiamò i Padri della Missione. Questi svolgevano azioni di spionaggio, quindi l’ignoranza. Il governo borbonico mandava spesso dei missionari nella terra d’Abruzzo, quasi fosse terra d’infedeli, allo scopo di intimorire il basso popolo. I missionari erano aiutati e protetti dalla polizia e all’uopo col fuoco, con catene e con orribili figure facevano tale spavento sulla povera gente nella fedelissima Chieti, come era solito chiamarla re Ferdinando II, la venuta delle Missioni era frequentissima e durante la loro permanenza i loro esponenti si comportavano da veri aguzzini.
I missionari negli sconvolgimenti politici furono i primi ad essere colpiti e, perseguitati dalla stampa, nel 1848 furono inesorabilmente cacciati dal Regno di Napoli. I capi del partito liberale visitarono tutti i paesi della provincia elettrizzando con i loro discorsi tutto il popolo abruzzese. Ma ritirata la Costituzione il loro patriottismo fu severamente punito e furono anche colpiti i non pochi aderenti alle loro idee di ogni Comune, come si rileva dai numerosissimi processi che vennero in seguito istruiti. Poiché i giornali tra febbraio e marzo 1848 non potevano ancora scrivere liberamente, i manifesti rivoluzionari venivano gettati durante la notte per le strade e, raccolti l’indomani, venivano letti e commentati. I giornali che si pubblicarono in quei mesi nella città di Chieti furono redatti sempre dagli stessi individui e cambiarono nome, non già carattere, ogni volta che vennero sequestrati dalla polizia. Così la Maiella, diretta da Gian Vincenzo Pellicciotti, si cambiò in Monte Amaro, l’Età Nuova (il cui primo numero porta la data del 16 dicembre 1848 e l’ultimo numero quella del 5 gennaio 1849) redatta quasi per intero dai fratelli Lanciano e dal Vito-Colonna, si cambiò in Secolo (il cui primo numero porta la data 15 gennaio 1849 ed ebbe un paio di mesi di vita), la Guardia Nazionale (di cui furono pubblicati solo due numeri nel febbraio 1849) diretta dal De novelli si trasformò nel giornale satirico-umoristico Costa Careta che, per le sue memorie, può dirsi la Rupe Tarpea teatina ove i redattori speravano potessero andarvisi a precipitare tutti i tristi borbonici. Tali periodici furono animati da ardente patriottismo e da un forte entusiasmo. Vennero scritti in buona lingua e spesso pubblicarono anche lavori letterari quali per es. “Marzo 1821” di A. Manzoni.
*Marilisa Palazzone, docente