Lo smartworking, non proprio così intelligente come sembra
Da mesi sentiamo ripetere che lo smartworking è il futuro del lavoro. Che può darci la possibilità di conciliare il tempo del dovere col tempo libero, lasciare spazio agli aspetti importanti della vita, che può addirittura facilitare la ricerca della felicità.
Come se non fosse lavoro, insomma.
Al netto dei vantaggi che da diversi mesi sperimentiamo quotidianamente, e al di là delle situazioni individuali, quanto è davvero “sostenibile” il lavoro da remoto?
Da una ricerca Microsoft del 2020 emerge infatti che “tra i principali benefici [del lavoro da remoto] si annoverano la possibilità di vestirsi in modo più casual (77%) e di personalizzare il proprio ambiente di lavoro (39%), avere più tempo per i propri hobby (49%), per i propri figli (36%) ma anche per gli animali domestici (22%)”. Motivazioni un po’ deboli, se si escludono i figli e l’affetto per gli animali domestici, ma soprattutto se ci si ferma a riflettere sulle conseguenze che il lavoro da remoto potrà avere sul futuro del lavoro, sul diritto del lavoro, sulle organizzazioni. Meno debole è il dato che vede calare di 10 punti percentuali la creatività e la capacità di innovare all’interno delle aziende e, se la creatività può essere considerata un’attitudine solitaria, l’innovazione per la psicologia è un “fenomeno organizzativo e sociale”. D’altra parte è ovvio, senza stimoli esterni, senza condividere spazi, tempi, pause, pasti, momenti di disimpegno con i colleghi e in generale con il prossimo, è complesso migliorarsi o farsi venire idee davvero nuove, soprattutto se la creatività è l’unica propensione per la quale Google non ha risposte.
Ma torniamo ai vantaggi, considerati sempre più indiscutibili, che non riguardano solo i lavoratori ma anche le aziende che si vedranno pian piano autorizzate a “dematerializzarsi”, a perdere una sede fisica, o a delocalizzarla dove il lavoro costa meno, comunque molto lontano dai luoghi di produzione, che a quel punto coinciderebbero con le abitazioni dei dipendenti. Vantaggi economici con conseguenze complesse sul futuro del lavoro che la legislazione non potrebbe ignorare.
A lanciare l’allarme è un libro pubblicato di recente da Laterza, Contro lo smartworking, del sindacalista Savino Balzano, dal titolo eloquente, che fa molto riflettere su quello che abbiamo considerato la soluzione a ogni infelicità.
Già a un anno dall’inizio del lavoro da remoto – e dalla promessa di molte grandi società italiane di voler continuare su questa strada per almeno il 35% dei lavoratori – si è creata l’emergenza delle attività connesse all’ “economia da ufficio”. Bar, ristoranti, tintorie, addetti alle pulizie insieme a tutto il settore dei viaggi costituiscono piccole e medie imprese italiane che secondo uno studio Ismea perderanno il 40% del proprio fatturato. Ignorare la “crisi della cotoletta”, come sarcasticamente è stata chiamata da molta della cronaca, vuol dire ignorare una fetta importante di lavoratori, qualificati e non, che rischiano di perdere il posto di lavoro. Considerare solo i vantaggi del lavoro da remoto vuol dire mettere su un piedistallo solo determinate figure di lavoratori a danno di altre.
Produttività sì, produttività no
Se le ore che i dipendenti non passano sui mezzi pubblici per raggiungere gli uffici bastano a farli sentire più produttivi, già nell’estate del 2020 molti manager USA lamentavano cali di attenzione e una maggiore lentezza nei progetti, ma soprattutto hanno sperimentato come la spinta produttiva era solo un riflesso pavloviano dell’inizio della pandemia, quando era la paura di perdere il lavoro a determinare il ritmo. E un ritmo dettato dalla paura non è un ritmo sostenibile. Così come non è sostenibile sviluppare una carriera da remoto per le nuove leve che entrano nelle organizzazioni: un giovane che si affaccia nel mondo del lavoro ha bisogno di confronti, chiarimenti, affiancamenti, di assorbire insegnamenti e ricevere risposte immediate dal collega di scrivania. Come scrive Balzano “l’entrata nel mondo del lavoro equivarrà all’accesso in un piccolo mondo individuale, in una monade che darà l’illusione di essere liberi e autosufficienti, ma in cui diventeremo in realtà ciechi agli altri […], subalterni e totalmente estranei ai valori che la Costituzione attribuisce al lavoro”.
Lo smartworking, insomma, da non confondere con il telelavoro (che invece ha precise applicazioni e regole), come è stato concepito in Italia nell’ultimo periodo, ha tutto l’aspetto di un provvedimento di emergenza.
Anche in Italia, infatti, da una ricerca di LinkedIn, emerge che il 48% degli intervistati lavora di più, mentre il 46% lo fa con un senso di ansia e stress per i propri risultati e per il mantenimento del ruolo. In generale, si lavora di più, oltre le 8 ore, e “staccare la spina” diventa sempre più difficile. Una flessibilità alla lunga dannosa per i lavoratori, anche se il motto di “lavorare quando vuoi e dove vuoi” suona, a un primo impatto, allettante.
Il lavoro è un fatto collettivo
Da sempre il lavoro è un fatto collettivo. Non solo una transazione, ma una contrattazione fatta di colloqui, risposte, rivendicazioni, rapporti con i responsabili delle “risorse umane”. Una relazione – spiega Contro lo smartworking – che non è in alcun modo spersonalizzabile senza conseguenze.
Il lavoro da remoto rischia di provocare una disgregazione totale della “comunità del lavoro”, la stessa che ne ha difeso da circa un secolo i diritti e ha contribuito a costruire le normative che lo regolano. Lo smartworking potrebbe esacerbare storici difetti del mondo del lavoro: straordinari non pagati, l’assenza di tutele ben definite per quel che riguarda la salute e la sicurezza (come si tutela la sicurezza di un lavoratore “da remoto”?), l’assenza di strumentazioni garantite (capita sempre più spesso che tra le condizioni del lavoro da remoto ci sia l’uso delle apparecchiature materiali di proprietà del lavoratore, senza dotazioni da parte del datore di lavoro o rimborsi per i consumi), la rinuncia a un orario di lavoro che non invada il tempo libero e in definitiva la mancanza di confini spaziali che, in assenza di ufficio, diventa un’assenza di confini temporali. Infine, l’assenza di regole sulle trasferte, che potrebbero diventare difficili da definire, in mancanza di una sede fisica di assegnazione per il dipendente.
Un’anarchia utile per massimizzare la produttività, a tutto vantaggio delle aziende che risparmiano sugli affitti e sulle strumentazioni e, a lungo termine, a tutto svantaggio dei lavoratori, che saranno isolati, senza una chiara idea dei propri diritti e senza nessuno con cui contrattarli e definirli se non delle “FAQ” sul sito dell’organizzazione.
Non esistono, ad oggi, protezioni sufficienti che tutelino questo “lavoro intelligente”, mentre l’isolamento dei lavoratori, un’esperienza che abbiamo provato molto spesso con conseguenze psicologiche anche spiacevoli in questi mesi, non renderà possibile pretenderle.
Senza contare alcune dinamiche che hanno a che fare con la disuguaglianza: da alcune interviste di marzo 2021 di Prudential, società assicurativa e finanziaria USA, si vede come il 43% dei lavoratori si dicono preoccupati per il fatto di rimanere a lavorare da remoto mentre i colleghi lavorano in presenza. Il rischio, dicono, è di “sparire” dalle organizzazioni e di veder crollare così la propria carriera. Una situazione di incertezza alla quale le forme di lavoro “ibrido” ci sottoporranno molto più spesso. A proposito di disuguaglianze sono colpite da questa ansia le donne che si vedono costrette molto più degli uomini a scegliere soluzioni di smartworking per poter conciliare il lavoro con la cura dei figli. Due terzi delle millennial (tra i 25 e i 40 anni) intervistate da The Skimms credono che perderanno opportunità di carriera non lavorando in presenza e il 40% ha affermato di sentirsi più sotto pressione a tornare in ufficio sapendo che i colleghi maschi si recano in ufficio.
Si tratta di disparità che spingono il lavoratore a una rincorsa continua e che, oltre a rivoluzionare il lavoro per come lo conoscevamo, rischia di smantellarne molti dei diritti finora acquisiti senza sostituirli con una buona regolamentazione “intelligente”.
*Angela Galloro, social media strategist