Due poesie di Natale
L’altro sguardo sulla festa della felicità
Natale. La festa della gioia, del calore familiare. La festa della magia, dei doni, delle luci, della neve. La festa del vischio, del profumo degli aghi di pino e della cannella, della lana calda e rassicurante, dello zabaione. La festa dell’albero e del presepe, delle famiglie riunite, perché a Natale tutti tornano a casa, anche i più lontani. La festa dell’amore, della bontà e dell’altruismo, la festa in cui i conflitti possono essere sospesi e lasciati da parte per un po’ perché, accidenti, è Natale.
Non per tutti, però, lo scintillio della festa può risplendere nel cuore, come un balsamo per l’anima pronto a lenire le pene del quotidiano e a ricordare la speranza in un futuro migliore e la felicità per la fortuna che gli affetti già ci regalano.
In fondo anche chi è felice, se ci fa caso, facilmente avvertirà quel sentore di struggente malinconia, che avvolge e intorpidisce come un velo appena mesto e rassicurante.
Ma soprattutto, chi soffre davvero a Natale soffre di più. Chi è solo si sente più solo.
Ci sono due poesie famosissime di autori altrettanto noti che esprimono al meglio questa seconda faccia del Natale, meno desiderabile, meno festosa, più dura e reale.
Sono due testi che tutti abbiamo letto almeno una volta, ma che non smettono mai di essere attuali e veri e di parlare all’intimità di ciascuno con la schiettezza delle parole pulite e prive di fronzoli.
Buon Natale
A Natale non si fanno cattivi
pensieri ma chi è solo
lo vorrebbe saltare
questo giorno.
A tutti loro auguro di
vivere un Natale
in compagnia.
Un pensiero lo rivolgo a
tutti quelli che soffrono
per una malattia.
A coloro auguro un
Natale di speranza e di letizia.
Ma quelli che in questo giorno
hanno un posto privilegiato
nel mio cuore
sono i piccoli mocciosi
che vedono il Natale
attraverso le confezioni dei regali.
Agli adulti auguro di esaudire
tutte le loro aspettative.
Per i bambini poveri
che non vivono nel paese dei balocchi
auguro che il Natale
porti una famiglia che li adotti
per farli uscire dalla loro condizione
fatta di miseria e disperazione.
A tutti voi
auguro un Natale con pochi regali
ma con tutti gli ideali realizzati.
Buon Natale di Alda Merini è un testo incredibilmente denso, che in pochi versi riesce a toccare tutto. Vola leggera sul vero significato delle cose, Merini, riuscendo a dire con poche pennellate, senza perdersi in inutili infiorettature, scavando a fondo pur con un solo passaggio, planando sulle sfaccettature che le stanno più a cuore e mettendole a fuoco con efficacia chirurgica che nulla toglie alla poesia delle sue parole, una carezza elargita con mano generosa e ferma.
Apre con chi è solo. Le persone sole sono le prime destinatarie dei suoi auguri, le prime che, forse proprio perché non hanno nessuno che pensi a loro, meritano di aver dedicata un’attenzione. Perché “a Natale non si fanno cattivi pensieri”. Di primo acchito questo sembra un richiamo al doveroso essere più buoni durante le feste, ma s’intuisce ben presto che questi pensieri cattivi sono di altra natura, quando a Natale la solitudine punge senza pietà, proprio perché è un giorno che celebra la famiglia, e allora chi non ha nessuno rischia di sprofondare in un baratro da cui può salvarlo solo la compagnia che Merini gli augura.
Segue l’augurio a chi è malato, che almeno nel giorno di Natale si spera possa riguadagnare un po’ di gioia, distrarsi dal proprio dolore e ritrovare la speranza in un futuro migliore.
E poi i bambini, quei “piccoli mocciosi che vedono il Natale attraverso le confezioni dei regali”. L’augurio di Merini per loro si rivolge agli adulti, che possano esaudirne ogni aspettativa. Qui emerge la bellezza più piena di questa festa, che risiede nella gioia pura di un bambino che nel suo letto aspetta si compia quella magia inspiegabile di un vecchio signore che si cala dal camino (o di Gesú bambino) per esaudire ogni suo desiderio, anche se il camino in casa non c’è. La gioia dell’infanzia passa per l’attesa di un fenomeno ultraterreno, che vale in sé molto più dei doni che effettivamente saranno ricevuti, perché a contare è il processo, quel fugace contatto con un’entità magica e misteriosa. Degli adulti è la responsabilità di rendere tutto ciò possibile, preservando il rituale per il tempo consentito, perché in fondo tutti abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che il Natale non è mai più stato lo stesso da quando abbiamo smesso di credere nella magia.
Questa responsabilità degli adulti è anche una protezione dei bambini in senso più ampio, una cura dell’infanzia, una cautela delle giovani anime, che meritano di crescere nella speranza e nella libertà e hanno diritto a un futuro luminoso.
Un pensiero, poi, Merini lo dedica ai bambini poveri, a cui augura di trovare una famiglia che possa strapparli alla miseria e alla disperazione.
Infine, un pensiero per tutti: pochi regali, ma tutti gli ideali realizzati.
Il vero senso del Natale, in fondo.
L’altro testo su cui vogliamo soffermarci è Natale di Giuseppe Ungaretti.
Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
È il 26 dicembre 1916 quando Ungaretti, in licenza dal fronte a Napoli, da alcuni amici, compone questi versi. La guerra lo ha già segnato profondamente e la gioia del Natale non riesce a farsi strada in lui, che prova solo stanchezza e voglia di solitudine. L’immagine del gomitolo di strade rende perfettamente l’idea del brulicare delle persone che si affaccendano in giro nel clima di festa, per i vicoli di Napoli come di ogni altra città. L’immagine di una confusione che normalmente sarebbe carica di eccitazione e gioia, ma che per chi è prostrato come il poeta diviene insopportabile, ricorda il caos della trincea e si riduce a qualcosa da rifuggire.
Il sollievo parrebbe venire dalla solitudine e dall’abbandono, la stanchezza esistenziale non consente di sopportare altro. Ungaretti si paragona ad un oggetto privo di coscienza, o questo vorrebbe essere, libero dalla percezione del dolore, che incombe sotto forma tanto di ricordo quanto di prossimo ritorno al fronte.
Il desiderio di non soffrire si esprime in quello di essere “cosa”, ma al contempo l’immagine della “cosa posata in un angolo e dimenticata” rimanda ai corpi privi di vita dei caduti.
Il “caldo buono”, insieme alla tranquillità della solitudine, sembra dare al poeta un po’ di pace, ma aleggia inespresso sul testo il ricordo del freddo e dell’orrore della trincea, cui Ungaretti non può dimenticare di dover fare ritorno.
Ad ogni modo questo è l’unico desiderio: restarsene accanto al camino, osservando le capriole del fumo. Pochi attimi di pace e di tregua, con quel caldo buono che scalda l’anima e aiuta a sopportare il dolore, offrendo l’illusione di trovarsi in un “nido” accogliente, sebbene la pace sia fugace come quelle “quattro capriole di fumo”.
Con questo componimento Ungaretti esprime un’altra grande verità sul Natale: la pena che una festa così ricca di gioia può infliggere a chi non sta bene, a chi non riesce a divertirsi perché troppo sta soffrendo e in cui dunque lo spettacolo manifesto di tanta felicità non fa che acuire la pena.
La speranza agrodolce, nel testo di Merini, accompagnata dalla consapevolezza delle sofferenze di tanti. L’amaro struggimento interiore senza soluzione, nel componimento di Ungaretti, per cui non esiste balsamo a lenire il dolore.
Due sguardi diversi sul Natale, sulla festa più bella dell’anno, ma entrambi distanti dalla classica idea di traboccante felicità tradizionalmente legata a questo giorno.
Quanto a noi, che ci lasciamo alle spalle senza troppa convinzione due degli anni più tragici di cui possiamo avere memoria collettiva, non resta che sperare nel Natale, confidando che possa portarci davvero quella serenità e quella gioia di cui mai come adesso abbiamo avuto bisogno.
*Monica Siclari, dottoressa in Comunicazione