Federico García Lorca tradotto in alcuni dialetti italiani
La grande notorietà di Federico García Lorca (1898-1936) e della sua opera nel nostro Paese è testimoniata non solo da una prolifica attività critica e da continue riedizioni – anche commentate – della sua opera, ma anche da alcuni esperimenti di lettura di diverso tipo, che meritano adeguato rispetto e approfondimento. Mi riferisco – in relazione a quel suo carattere di poeta terrigno eppure universale – alla sua grande capacità di saper parlare e raggiungere popoli, gruppi umani, linguistici diversi, al pathos che trasmise nelle sue produzioni che i traduttori – non senza difficoltà – hanno cercato di rendere in idiomi altri rispetto allo spagnolo nativo del Poeta. È il caso anche dell’esigenza di percorrere la sua opera lirica in lingue dalla diffusione più limitata, localizzate in specifici ambienti di provincia, vale a dire i dialetti.
Non sono mancate, infatti, iniziative di cultori di dialetto che sono andate in questa direzione: non tanto quella del recupero della tradizione poetico-culturale oriunda, tra reminiscenze di età andate e grumi di nostalgia ma, piuttosto, quello di riconnettersi alla tradizione alta, colta, riallacciandosi a opere e autori di altre età, di altri contesti e “prenderle in prestito”, in qualche maniera, per “farle proprie” ma in maniera originale. Si tratta di un procedimento alquanto curioso, che nella maggior parte dei casi non ha visto esiti di particolare altezza, ma che ha, comunque, evidenziato una questione rilevante: la necessità dell’uomo contemporaneo – dello studioso attento – di saper interloquire anche con ciò che costituzionalmente non gli appartiene in forma nativa e identitaria.
La traduzione, questo “versare”, “porre a lato”, diviene, dunque, un qualcosa di fondamentale. Il tradurre da lingua a lingua lo è per ovvi motivi che qui risulta superfluo richiamare e che attengono principalmente alla possibilità di conoscere, apprendere, apprezzare e introiettare nel proprio panorama di ricchezze nozionistiche un sapere in una lingua estranea dalla nostra e, pertanto, se non intervenisse un medium a facilitarci la comprensione di quel testo, reso – adattato, trasposto, versato – nella nostra lingua, saremmo irrimediabilmente esposti a una perdita gravosa di conoscenze.
Il tradurre da lingua a dialetto è qualcosa di diverso poiché quest’ultimo non aspira a una diffusione capillare nel contesto nazionale e negli usi della lingua – da quelli formali e istituzionali a quelli pratici e d’uso comune della propria familiarità – dacché, per portare un esempio, tradurre i Sonetti di Shakespeare in napoletano non direttamente apporta per i parlanti del napoletano (né, di converso, per gli italiani tutti) una conoscenza superiore o inedita rispetto al bagaglio di conoscenze già in dotazione dell’italiano, dacché le liriche del Bardo sono già ben note in italiano, che è la versione primaria nella quale sono state trasposte nel nostro Paese dal loro originale.
Va da sé che, essendo un procedimento non automatico ma condotto dall’uomo dietro perizia di lettura, studio, attenzione e conoscenza delle due culture (quella dalla quale si parte e quella alla quale si giunge) e dunque un “trasferimento”, non può esistere un’unica versione concepita come giusta, completa, unanimamente accettabile di un’opera né, per le stesse ragioni, superiore rispetto a un’altra (con i distinguo di competenza e rispondenza all’originale di cui si diceva).
Avvicinandoci al caso di Federico García Lorca tradotto nel nostro Paese in lingue e varianti dialettali d’uso che non siano la lingua italiana (eliminando chiaramente il tedesco del Sud Tirol, il catalano di Alghero, il francese della Valle d’Aosta) ho reperito alcune informazioni che mi sembrano utili, sebbene approssimative, dal momento che la ricerca è stata breve e non può considerarsi esaustiva né particolarmente soddisfacente. Valga, comunque, come “anticipo” di un possibile discorso da riprendere e approfondire, quale tesi propedeutica a uno studio investigativo più allargato.
Veniamo al caso di Federico García Lorca, l’“andaluso universale” come ebbe a definirlo Carlo Bo, all’interno della grande vastità di dialetti del Belpaese. Alcuni anni fa Piero Marelli e Maurizio Noris hanno compilato un’antologia di poeti dialettali traduttori dal titolo Con la stessa voce (Lieto Colle, 2015) nella quale compaiono autori della classicità europea tradotti in altrettanti dialetti regionali o locali del nostro Paese. A fianco di Lee Masters, Shakespeare, Leopardi e Robert Burns, vi figura – doverosamente – anche García Lorca, tradotto in bergamasco dallo stesso Noris[1] ma anche in barese da Vincenzo Mastropirro[2].
Sebastiano Burgaretta[3], studioso di tradizioni popolari e cultore locale nato ad Avola (SR) nel 1946 ha llevado a cabo – ha portato avanti – una traduzione in siciliano di un’opera teatrale di Lorca ovvero La casa de Bernarda Alba, pièce conclusiva della nota trilogia drammatica che l’autore, a causa dell’assassinio nel 1936, non poté mai vedere rappresentata né stampata su carta. Burgaretta, che ha anche curato il relativo adattamento teatrale dell’opera, ha pubblicato il suo volume tradotto in siciliano con i tipi di Algra Editore di Zafferana Etnea (CT) nel gennaio 2015.
Ed è proprio il siciliano che ha dato grande eco all’opera dell’autore di Romancero gitano se pensiamo che il grande poeta Salvatore Camilleri (1921-2021) con Tringale Editore di Catania nel 1983 pubblicò 70 Poesie dove raccolse alcune delle più impressive poesie di Lorca in versione siciliana[4]. Così scrive nella prefazione: «Federico m’insegnava a trarre ispirazione dal folclore, senz’essere folcloristico […] ma era un maestro difficile, quasi impalpabile, che chiedeva totale devozione e tensione continua; un maestro le cui emozioni folgoranti dovevano essere percepite senza nessuna mediazione, per magie, risolvendosi in banalizzazione ogni tentativo di dare significato all’immagine o alla metafora. […] Nessuno procede da solo, né nella vita, né nei sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo»[5].
Altra manifestazione interessante è quella di Rosario Loria (nato a Poggioreale, nel Trapanese, nel 1938) – noto scrittore, poeta, commentatore attento delle vicende cronachistiche e culturali dei nostri tempi nonché ideatore del genere riverismo poetico – che nel suo dialetto locale, quello di Poggioreale con influssi della parlata di Menfi (AG) dove vive da varie decadi – ha tradotto la prima delle quattro parti – quella che in originale porta il sotto-titolo di “La cogida y la muerte” – del famoso Llanto por la muerte de Ignacio Sánchez Mejías. Lorca scrisse quest’opera nel 1934, sull’onda del lutto e dello scuotimento emotivo provato per la morte del celebre torero andaluso che nel 1934 sulla plaza de toros di Manzanares venne duramente attaccato dal toro Granadino e morì della fatale cornata.
Per ampliare il tema qui proposto con questo scritto della versatilità dei contenuti lorchiani resi in alcuni dei dialetti nazionali vorrei riportare altre circostanze che mi sembrano interessanti. La città di Napoli – dove è sempre stato particolarmente vivo il mondo teatrale, tanto di maschere, di scena e impegnato – ha visto la creazione di un vero e proprio connubio con l’opera teatrale del Granadino.
Ne è testimonianza la trasposizione in dialetto partenopeo de La casa de Bernarda Alba a opera e per la regia di Gigi Di Luca che a maggio del 2010 andò in scena alla Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta nel capoluogo partenopeo. Come ricorda la stampa, tale opera in napoletano aveva debuttato già qualche anno prima, nel 2007 al Teatro Nuovo di Napoli, alla presenza dell’allora Assessore alla Cultura di Siviglia, don Juan Carlos Marset, poi portato anche in Spagna al Teatro Almeda.
Nel marzo del 2019 al Teatro TRAM di Via Port’Alba a Napoli andò in scena la versione in dialetto napoletano di Yerma col titolo ‘A Jetteca per la regia di Fabio Di Gesto e Silvio Fornacetti, costumi di Rosario Martone e attori recitanti Chiara Vitiello, Diego Sommaripa, Francesca Morgante, Maria Grazia Di Rosa e Gennaro Davide Niglio.
L’interesse verso la drammaturgia drammatica di Lorca è particolarmente forte nel nostro Meridione dove, la realtà sociale e familiare di piccoli borghi di provincia e delle campagne nel secolo scorso, viene percepita molto affine a quella della retrograda, machista e illiberale Spagna che Lorca dipinse. Non solo in Sicilia, in Campania, ma anche in Sardegna l’opera di Lorca trova una versione in una lingua locale. È il caso di Bodas de sangre tradotta in sardo da Gianni Muroni col titolo Isposòriu de sàmbene e pubblicata da Condaghes Edizioni di Cagliari nel 2013. Pur tuttavia non si trattò della prima traduzione in sardo di quest’opera se si tiene presente che nel 2011, prima al Teatro Verdi di Sassari poi al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, andò in scena Nozze di sangue nella versione sarda (variante barbaricina) scritta a quattro mani dal noto Marcello Fois e Serena Sinigaglia col titolo Bodas de sambene. Nell’opera di Fois e Sinigaglia la Barbagia sostituisce la Vega, ma tutto è rimasto inalterato: l’ambiente di campagna, la reticenza dei personaggi e la loro ritrosia, l’incomunicabilità diffusa e un senso inscalfibile di tragedia sin dalle prime battute con una dominazione indiscussa del mistero e del fatalismo. Il successo della rappresentazione fece sì che l’opera venisse riproposta nel suo locus primigenio, in Sardegna, alcuni anni dopo (al Teatro Massimo di Cagliari in tre serate consecutive dal 21 al 23 aprile 2017 e al Teatro Eliseo di Nuoro in due serate consecutive, dal 28 al 29 aprile 2017).
Non furono solo i dialetti dell’Italia meridionale e insulare a mostrarsi interessati all’opera letteraria di Federico García Lorca: si pensi al caso di Pier Paolo Pasolini. La professoressa Maria Isabella Mininni dell’Università di Torino in un recente saggio dal titolo “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”[6] si è dedicata a una veloce disamina dei principali autori spagnoli tradotti da Pasolini in friulano, richiamando, appunto, anche Lorca. Sono i testi che vennero pubblicati nell’opera poetica totale di Pasolini nel 2003 a cura di Walter Siti per la Mondadori. Nel saggio di Mininni si ripercorre, pertanto, la natura di traduttore in friulano[7] di Pasolini di alcuni dei maggiori lirici spagnoli del Secolo scorso: oltre a Lorca, Machado e Juan Ramón Jiménez, anche Salinas e Jorge Guillén. Il poeta di Casarsa, che era un grande amante del libro e che già da giovanissimo aveva contribuito a costruire un’ampia biblioteca personale, con viva probabilità possedeva – o per lo meno aveva letto – la prima traduzione in italiano di una selezione di testi poetici del Granadino curata dal critico e traduttore Carlo Bo (Poesie di García Lorca edito da Guanda di Parma nel 1940) o nella successiva opera da lui curata col titolo di Lirici Spagnoli (Corrente Edizione, Milano, 1941)[8]. Notevole anche il meno noto lavoro di traduzione del giornalista e poeta piemontese Luigi Armando Olivero (1909-1996) la cui consultazione è possibile, tramite la rete, grazie a un documentatissimo sito curato dal prof. Giovanni Delfino al quale si rimanda. * Pubblicato sul blog «El Mundo de Federico Garcia Lorca» il 20/06/2021, link: https://elmundodefedericogarcialorca.blogspot.com/2021/06/federicogarcia-lorca-tradotto-in-alcuni.html
[1] Un’altra poesia lorchiana tradotta da Noris (“El niño mudo”) in dialetto bergamasco (“Ol s-cetì möt”) è disponibile e ascoltabile nella versione registrata all’interno della notizia: Maurizio Noris, “El niño mudo, Ol s-cetì möt. I versi di García Lorca in dialetto bergamasco”, «Sant’Alessandro», [settimanale online della Diocesi di Bergamo], 2 maggio 2019, link: http://www.santalessandro.org/2019/05/02/so-los-dell-02-05-2019-el-nino-mudo/ (Sito consultato il 10/05/2021).
[2] In maniera più precisa si tratta del dialetto di Ruvo di Puglia (BA). La traduzione di questo testo nel volume viene posta “a confronto” con quella – dei medesimi versi – eseguita da Fernando Grignola nel suo dialetto ticinese di Agno (Svizzera) che così recita: «Quand ch’a sarò mòrt, / soteremm / cun ra mè ghitàra / sóta ra sàbia».
[3] Una sua nota bio-bibliografica è consultabile su questi siti: https://www.archilibri.it/author-book/sebastiano-burgaretta/ e su http://www.libreriaeditriceurso.com/Burgaretta_Sebastiano.html (siti consultati il 10/05/2021).
[4] Ringrazio l’amico, il poeta e scrittore Marco Scalabrino di Trapani, grande studioso del dialetto siciliano, per avermi reso edotto di questa preziosa notizia e per avermi proporzionato le scansioni dell’immagine di copertina e della prefazione al volume.
[5] Salvatore Camilleri, Prefazione a Federico García Lorca, 70 Poesie Tringali, Catania, 1983, pp. 5-8.
[6] Maria Isabella Mininni, “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”, «Intralinea Online On line Translation Journal», 2013, link: http://www.intralinea.org/specials/article/2003 (sito consultato il 18/05/2021).
[7] «Il friulano in cui Pasolini scriveva era un ibrido, né la versione già codificata della tradizione letteraria del capoluogo regionale, né il canone stabilito dal dizionario Italiano-Friulano di Pirona. Pier Paolo si basava su quello che sentiva, trascrivendo una mescolanza di friulano, di veneto e delle idiosincrasie personali in cui si imbatteva», in Barth David Schwartz, Pasolini. Requiem, Venezia, Marsilio, 1995, p. 215.
[8] Qui erano stati antologizzati i poeti: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Fernando Villalón, Rafael Villanova, Pedro Salinas, Jorge Guillén, Gerardo Diego, Federico García Lorca, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Josefina de la Torre.