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Lukas Bärfuss, Hagard (L’Orma Editore, 2021)

A un certo punto del Terzo uomo, straordinario film di Carol Reed con la sceneggiatura di Graham Greene, Orson Welles, che interpreta il ruolo del vilain, recita una battuta tanto celebre quanto feroce, nella quale mette a paragone l’Italia del Rinascimento con la Svizzera: «In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù». Ora, si tratta certamente di una battuta – nella sostanza priva di veridicità – che nondimeno si può utilizzare come chiave d’accesso pressoché universale alla scrittura dei grandi autori svizzeri. Se, infatti, alle parole pace e democrazia si sostituisce quella di benessere, ci si avvede facilmente come questi, ognuno a suo modo, non hanno fatto altro che cercare di smontare, se non addirittura di abbattere frontalmente, l’“idillio” svizzero, il mito del benessere, fondamentale per l’autorappresentazione di un paese intero. Basti pensare ai nomi di Frisch, di Dürrenmatt o di Bichsel per comprendere come il lavoro dello scrittore, nella Confederazione Elvetica, sia quasi destinato a una sorta di corpo a corpo con la società, facendo ricorso alle armi del comico o del romanzo poliziesco. Ma soprattutto del teatro, giacché una cosa in particolare accomuna almeno i primi due autori citati sopra con Lukas Bärfuss: la matrice teatrale della scrittura. In realtà, un altro elemento in comune è extraletterario, ma pur sempre interessante: come Frisch e Dürrenmatt, Bärfuss è stato insignito del Premio Büchner che, vale la pena ricordarlo, si assegna in Germania ai migliori scrittori di lingua tedesca. Ancor più dei due grandi autori novecenteschi, Bärfuss ha un forte debito con il teatro, dal momento che la sua opera si compone in larga parte di pièce teatrali. 

E questo debito si intuisce sin dalle prime pagine di Hagard, il suo ultimo romanzo – pubblicato nel 2017 e tradotto adesso da Marco Federici Solari per L’orma –, nelle quali il personaggio acquista vita propria, indipendentemente dal narratore, che appunto non ne capisce le intenzioni e si limita ad assecondarlo, nonostante una forte perplessità iniziale. Che cosa racconta, dunque, il romanzo? Scrive il narratore: «all’inizio di questa storia c’è un paio di scarpe da donna», o meglio, un paio di «ballerine color prugna» intraviste tra la folla dal protagonista, l’agente immobiliare Philip. Da quel momento, in un pomeriggio di metà marzo del 2014 – un passato recente che, grazie a un uso sapiente dell’imperfetto, viene trattato come se fosse un’altra epoca – inizia un inseguimento: l’uomo si mette infatti a seguire fino alla periferia della città (che, pur non essendo nominata, è riconoscibile come Zurigo) la giovane donna che le indossa, la quale resta invisibile, per lo meno agli occhi del narratore e del lettore. In effetti l’inseguimento a cui assistiamo è duplice: se Philip pedina ossessivamente la ragazza, il narratore pedina in maniera altrettanto ossessiva Philip.

Ne scaturisce una narrazione frenetica, nel corso della quale insieme al narratore siamo testimoni della deriva di Philip, interrogandoci sulle sue motivazioni, sulle sue azioni apparentemente indecifrabili. Sta qui l’elemento politico della scrittura di Bärfuss, cioè nella messa in discussione dello stile di vita borghese di cui Philip, all’inizio del romanzo, è un esemplare perfetto, per poi allontanarsene progressivamente, ma forse senza alcuna consapevolezza. Il protagonista abbandona la propria condizione di borghese, di abitante di una città che Bärfuss descrive in questi termini: «Se si tracciasse il diagramma dell’esistenza di un suo cittadino tipo come un segmento tra la nascita e la morte si otterrebbe una linea piatta, senza rilievi né avvallamenti, una quieta, continua tensione verso la propria fine, qua e là interrotta da alcune minime irregolarità, oscillazioni dovute a una malattia o a un divorzio». Perdendo pian piano i soldi, i documenti, una scarpa e infine l’uso del cellulare, che si scarica definitivamente e lo lascia «solo, scollegato ed estromesso dalla propria realtà», Philip varca un limite e precipita in un’altra realtà, che consiste solamente nell’inseguimento della ragazza, e contraddice così con le proprie azioni quello spirito dei tempi che «prescriveva l’autocontrollo». 

A leggere bene, si tratta di una critica assai dura nei confronti del nostro stile di vita occidentale, che la Svizzera e Zurigo incarnano perfettamente, uno stile di vita che è fatto per rimuovere – in tutte le accezioni del termine – la povertà. Quando perde una scarpa dopo essere sceso di corsa da un treno per il quale non aveva il biglietto, Philip si trova, come lo sarebbe ognuno di noi, del tutto impreparato, perché la sua civiltà dà «per scontato che le scarpe siano sempre disponibili in paia», che la realtà non presenti imprevisti di questo genere. Davanti al protagonista che getta via le proprie forze, il narratore prova «pietà e incomprensione»; di sfuggita, occorrerebbe chiedersi da quanto tempo il romanzo europeo – come la società che lo produce – ha cancellato la povertà, da quanto tempo sia tracciato il limite che oltrepassa Philip. È qui, peraltro, che il romanzo tocca le sue pagine più vertiginose, allorché ci troviamo ad assistere a qualcosa di inspiegabile perché non riusciamo a intuirne il fine: «Presumevo che ogni gesto avesse uno scopo e lì non ne trovavo nessuno». Davanti all’«annientamento della propria volontà nel crogiuolo del desiderio» non riusciamo a capire, a spiegarci che cosa succede. E la storia di Philip rimane un mistero. In tempi in cui il romanzo vorrebbe spiegare tutto, dandoci l’illusione che la realtà sia sotto controllo, Hagard non concede al lettore nulla di consolatorio.

*Massimiliano Manganelli, scrittore