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Testimonianze su Dario Bellezza

Conobbi Dario Bellezza nel lontano 1986, quando pubblicai con l’ottimo editore romano Antonio Porta la mia silloge “Lo sguardo dell’uomo” recante in pompa magna la prefazione di Walter Pedullà.

Dario mi accolse sulla collanina da lui diretta, nella quale lui stesso aveva pubblicato “Piccolo Canzoniere per E.M.”; Elsa Morante cioè, l’autrice dell’Isola di Arturo e moglie del grande Alberto Moravia. Ne fui lusingato, in un certo senso essendo stato catapultato nell’ambiente letterario che conta. 

Divenimmo a modo nostro amici, io un magistrato in prestito alla poesia, lui un affermato poeta lanciato nientepopodimeno che da Pier Paolo Pasolini, schivo, attraversato a tratti da improvvise tristezze che già lasciavano presagire il suo destino d’immatura morte. Egli stesso ne aveva del resto recitato una sera d’estate del 1976 sul palco del “Viareggio”: “Così senza speranza di sapere mai/cosa sarei stato più che poeta/se non m’avesse tanta morte/dentro occluso e divorato, da me prendo infernale commiato” (da Morte segreta, ediz. Garzanti).

Anche la sua omosessualità, mai ostentata con gli amici etero, Bellezza la viveva con una sorta di pudica mestizia vivificata da lampi d’autoironia, catapultandola, nel vano tentativo di sublimarla, sul disperato proscenio di un anticonformista e antiborghese maledettismo; “condizione” che amava non di rado, con riserbo brechtiano, mascherare e che comunque, con ammirevole onestà intellettuale, non aveva mai inteso, enfatizzandola, sfruttare per la vendita dei suoi libri (celebre in proposito fu lo “scontro” in T.V. con un noto scrittore, anch’esso omosessuale, che apostrofò “puttana che va in giro a vendere i libri”).

Proprio perché aveva avvertito in me un sofferto anticonformismo – necessitato com’ero a destreggiarmi tra tradizionali pandette, pesanti tomi e assurde scartoffie, da cui, con pendolari e liberatori guizzi, riuscivo talora a sgaiattolare convolando a nozze con “l’eversiva” poesia – Dario manifestava sincera apertura nei miei confronti invitandomi di tanto in tanto, lui che amava nascondersi, celarsi come fa la luna dietro le sue eclissi, in localini caratteristici di Trastevere, con odori inconfondibili della Roma di una volta. Ed io lo ricambiavo, per fargli sentire solidarietà di tipo familiare di cui in fondo a sé soffriva l’assenza, con pranzi o cene nella mia casa romana, in zona sita nei pressi del quartiere San Giovanni.

Anche nella mia villetta calabrese, sulla costa del Tirreno, venne una sera d’estate a trovarmi il poeta “maledetto”, accompagnato dal generoso Antonio Porta e dal pittore Pino Masci. Questi ultimi provenienti da Roma, lui forse dalla vicina Cassano Jonio dove era stato ospite del comune amico Peppino Selvaggi, giornalista del Messaggero. Parlammo per ore come cospiratori nel giardino sotto le stelle, odorante d’inebrianti profumi di salmastre tamerici, frammisti ad altrettante fragranze della contigua feijoia brasiliana, cespugliosa pianta di cui io senza ritegno menavo esotica fierezza.

Credo proveniente da Maratea dove aveva preso in affitto una casa, venne ancora in Calabria, quel 29 agosto del 1989, quale membro della giuria del Premio popolare di Poesia “Città di Tropea – Brutium Poesia Incontro”, organizzato dall’indimenticabile poetessa napolitana Rina Li Vigni Galli. Fummo quattro i vincitori ex equo del premio per la poesia presieduto da Walter Pedullà: Edoardo Albinati, Vivian Lamarque, Angelo Maugeri ed io, col mio “Il Demone sommerso” edito dalla Sciascia.

Presidente della giuria per la narrativa era invece Alberto Moravia che io la sera salvai, con insospettata destrezza, da una rovinosa caduta.

Dopo il premio letterario, avevamo sentito il bisogno, congedandoci da sciami di poeti e narratori, di fare, col superstite drappello, una passeggiata distensiva sul lungomare di Tropea prima di andare a cena. Un po’ stanchi, di quella stanchezza languida che sa portare ogni fine estate assieme a un vago sentore di uva passa, mettemmo infine piede nella hall dell’albergo: e fu lì che mi accorsi con la coda dell’occhio che Moravia, abbandonando il bastone, si era lasciato pesantemente cadere su una sorta di sedia a dondolo che, sotto il suo peso, aveva cominciato a oscillare pericolosamente. Mi precipitai subito e riuscii, con un ben assestato colpo di mano, ad arrestare la corsa impertinente della perfida seggiola. Lo scrittore mi guardò come solo lui sapeva fare, con uno sguardo penetrante, a metà tra il divertito e il triste, ed io, forse per darmi un contegno di fronte a quella situazione oggettivamente imbarazzante, gli chiesi a bruciapelo, con impudico candore, se la fama che lo circondava e il conseguente assedio dei mass media non finissero in definitiva per infastidirlo (questo fu almeno il senso della mia domanda). Ricordo ancora oggi, nonostante i tanti anni trascorsi, la paziente eppure distaccata risposta del grande scrittore che, con voce un po’ roca, mi confermò che si, in effetti sentiva tutto il peso della notorietà, ma ciò era oramai inevitabile e lui non poteva farci niente. 

Non rammento quella sera la presenza di Dario Bellezza, probabilmente dopo il premio se l’era svignata alla chetichella, credo sospinto dalla corrosiva noia (che lo accomunava al suo maestro Moravia), uno sconcertante stato d’animo che di sovente lo affliggeva e da cui cercava rimedio movendo, a mo’ di caleidoscopico giocoliere di coltelli, il suo personalissimo e raffinato teatro. Sul quale fellinianamente s’affacciava coi suoi stravaganti foulards e cappellucci.

*Marcello Vitale, scrittore