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‘A libertà

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’A libertà, di Raffaele Messina

A Gennaro Capuozzo (1932 – 1943),

martire della Resistenza napoletana,

medaglia d’oro al valore militare.

I piedi strofinavano sul marciapiede a passettini corti e lenti, come se dovessero rendere lucidi i basoli di porfido sui quali, contro ogni propria volontà, pure si attardava. 

Ridotto dagli anni a scheletro ricurvo, precario fardello di ossa e pelle avvizzita, Cesare Buonocore s’aggrappava, più che appoggiarsi, al consunto bastone di legno, con la mano ossuta e le dita che rispondevano a scatti allo sforzo della presa. Ma più d’ogni altra cosa, egli sembrava soffrire il peso della testa massiccia, con capelli sbiancati ma ancora folti a ridosso della fronte spaziosa e stempiata, segnata a sinistra da una vistosa lentiggine senile. Sopracciglia folte e ispide schermavano dalle trafitture del sole i suoi occhi color tabacco, ancora vivi e lucidi, sotto quella patina di cispa giallastra, incrostata alla giuntura delle palpebre. 

Chinato in avanti, ingobbito, per lui, non esisteva più il verde della collina sovrastata da Castel sant’Elmo; non esisteva più l’azzurro del cielo, oltre la linea frastagliata dei monti sopra Sorrento, né il bianco aleggiare del gabbiani in volo planato. Per lui esisteva soltanto il grigio della strada, continuo come il grigiore dei suoi giorni in questo ultimo scorcio di vita.

«’A…» urlò a un tratto. Un urlo troncato sul nascere, una sillaba rimasta orfana, come per mancanza di fiato, e subito ripresa, in un nuovo tentativo: «’A…»  

Più che dolore o fatica, quell’urlo, ripetuto ma non completato, sparse nell’aria un rancore rauco. I pochi che camminavano in direzione opposta sullo stesso marciapiede, lo videro fermarsi del tutto, conquistare con sforzo la posizione eretta, con una mano dietro le reni e l’altra a brandire il bastone a mezz’aria. Poi lo sentirono gridare, e gridare ancora:

«’A libertà! ’A libertà!»

Cambiarono subito marciapiede quei pochi passanti, in automatico l’ossequio alle recenti norme di distanziamento sociale e all’altrettanto automatica, atavica repulsione per i malati di mente. E, allontanandosi, ciascuno di essi bofonchiò la propria diagnosi dentro la mascherina con la quale copriva a un tempo la bocca e la paura del contagio:

«Demenza senile».

«Pazzia, pazzia…»

«Disturbo bipolare!»

Cesare Buonocore, quel vecchio di ottantotto anni che in quel 25 Aprile del 2020 procedeva, passo dopo passo, sul lungomare Caracciolo, si era alzato di buon’ora, più che mai determinato. Era uscito dalla propria abitazione, due stanzette decorose e un bagno in vico Belledonne a Chiaia, nella quale viveva solo da quando si era separato, nel lontano 1969. Aveva trentasette anni, allora, e aveva appena scoperto l’amore. Non che non avesse avuto altre donne prima, anzi: a quel tempo era già sposato e aveva un figlio d’una decina d’anni. Ma soltanto allora, a trentasette anni, aveva provato dentro di sé quell’amore che non sente ragioni, quella forza travolgente che non scende a compromessi. Per amore, dunque, aveva lasciato la casa al piano nobile di un palazzo signorile del corso Vittorio Emanuele, con i balconi aperti sullo splendore del golfo, e si era trasferito in quel basso di vico Belledonne, giusto a metà tra l’antica dimora in cui aveva lasciato il figlioletto e il quartiere flegreo, dove abitava l’amore suo. Vicino a tutt’e due, pensava lui, ancora giovane. In realtà, lontano da entrambi, a mano a mano che la capacità di muoversi era venuta meno. 

Aveva attraversato piazza della Repubblica con quel suo passo strascicato, per la prima volta senza rischiare di essere investito dalle automobili, assai scarse date le rigide restrizioni alla mobilità dei cittadini. A sinistra si era lasciato l’eterno cantiere della metropolitana, mentre non c’era più traccia del monumento allo scugnizzo, rimosso a suo tempo per fare spazio ai lavori. Gli mancavano quegli enormi lastroni di travertino, fittamente scalpellati e conficcati al suolo in modo da costituire un quadrilatero: uno per ciascuno dei punti cardinali, affinché si potesse vedere, da qualsiasi lato della piazza, l’epica lotta di Napoli in difesa dei propri figli e delle proprie infrastrutture contro i nazisti, contro il loro delirante piano di deportare in Germania tutti gli uomini abili al lavoro e di fare trovare agli americani soltanto un cumulo di macerie. Aveva sempre faticato, però, Cesare Buonocore a distinguere il volto di Gennarino. Eppure lui lo aveva conosciuto bene Gennarino Capuozzo: erano coetanei e insieme si erano ritrovati in via Santa Teresa, a passare munizioni ai patrioti che sparavano sui soldati nazisti, per impedire ancora rastrellamenti e distruzioni di ponti e acquedotti e fabbriche. Ogni volta che era passato di lì, da quel lontano 14 giugno 1969, giorno dell’inaugurazione, aveva cercato i lineamenti dell’amico sfracellato dalla granata tedesca. Ma tra tutte quelle figure, tra tutti quei volti di ragazzini, e non ne ricordava così tanti sulle barricate, finiva sempre col perdersi senza riconoscerne alcuno. Forse esagerava nel prendere alla lettera il ‘realismo’ di Marino Mazzacurati, lo scultore di cui tanto si era parlato sui giornali; forse doveva accontentarsi dello spunto e rassegnarsi a sopperire con i ricordi alle mancanze dell’arte. 

Quel giorno, dunque, aveva deciso di forzare i propri limiti fisici e spingersi, fino a lì, sul lungomare Caracciolo, per compiere un atto di testimonianza, un atto di nuova Resistenza: 

«’A libertà… ’A libertà è a chiù bella cosa».

Vecchiezza secca, la sua. Si rivelava ancora capace di covare e sprigionare con insospettabile energia un risentimento rosicato a lungo. 

Le misure del cosiddetto distanziamento sociale, che si diceva in televisione fossero state prese proprio per proteggere i soggetti più deboli come lui, gli sembravano un’insopportabile beffa: il furto certo di una primavera presente e viva, a fronte della promessa di chissà quante stagioni future! Se glielo avessero chiesto, avrebbe detto che, nella probabilità di non farlo morire, di certo non lo stavano facendo vivere.

Perché no, non era più vita quella che gli avevano imposto. Non era più vita, se per un pezzo di pane doveva cioncarsi in fila, in piedi per mezz’ora all’esterno del negozio. Non era più vita se il suo unico figlio disertava anche quelle rare e rapide visite, giusto il tempo di un “Ciao, come stai?”, asserendo che era per il “suo bene”. Per il suo bene, per non esporlo al contagio, era stato necessario rinunciare anche all’unico pranzo settimanale insieme, rinunciare a quell’unico pasto consumato con il sangue del suo sangue. No, non era più vita, se l’aria e il sole non li poteva più avere e doveva restare tutto il giorno chiuso in due stanze e un gabinetto. 

E, dunque, ora sul lungomare, brandendo il bastone come un pazzo furioso, gridava al vento la sua disobbedienza:

«Noi ci siamo fatti accidere p’a libertà… Noi abbiamo cacciato ’e tedeschi p’a libertà!» 

*Raffaele Messina, scrittore