La nostra salute e quella della Terra
Il Pianeta del futuro: le prossime sfide dello sviluppo sostenibile
La presenza dell’uomo sulla Terra è sempre più scomoda e la sua tracotanza sta lasciando un segno che rischia di essere indelebile. Un pianeta non basta: nel 2050 ce ne vorranno «due», soprattutto se continuerà l’attuale ritmo di consumo d’acqua, suolo fertile, risorse forestali e specie animali. Gli ecosistemi naturali si stanno degradando a un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana. È quanto si leggeva nel Living Planet Report del 2006, la sesta edizione del rapporto del WWF, diffuso proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo: la Cina.
Dopo due anni di studi gli esperti, che hanno analizzato lo stato naturale del pianeta ed il ritmo attuale di consumo delle risorse, indicavano che la popolazione umana entro il 2050 raggiungerà un ritmo di consumo pari a due volte la capacità del pianeta Terra, un ritmo insostenibile visto che il pianeta Terra è un sistema biologico chiuso.
“Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell’impronta ecologica sono per difetto. Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di “metabolizzare” i nostri scarti, ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia. E’ tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo. Siamo tutti consapevoli che i cambiamenti necessari per ridurre il nostro impatto sui sistemi naturali non saranno facili ma si basano su straordinarie qualità umane: la capacità di innovazione, la capacità di adattamento, la capacità di reagire alle sfide. E’ da come impostiamo oggi la costruzione delle città, da come affrontiamo la pianificazione energetica, da come costruiamo le nostre abitazioni, da come tuteliamo e ripristiniamo la biodiversità, che dipenderà il nostro futuro”.
All’alba del 2021 cosa è cambiato?
Il nuovo anno si è chiuso così come il precedente, ricordandoci come la pandemia di SARS Covid-19 sia ancora presente nelle nostre vite più di quanto potessimo immaginare. Il trasferimento del virus dagli animali all’uomo ha molto a che fare con la nostra impronta sul pianeta, abbiamo scritto tempo fa di Spillover saggio profetico di David Quammen sui cacciatori di virus, e di quanto la nostra salute sia direttamente connessa agli altri esseri viventi, alle piante e all’ambiente. Il coronavirus responsabile della pandemia in corso è stato originato da mutazioni di un virus dei pipistrelli che gli hanno permesso di trovare un nuovo ospite: noi. Tutto questo, come sappiamo, grazie a una combinazione di cause che comprendono il nostro pessimo impatto sul pianeta: dalla deforestazione alla distruzione degli habitat che hanno alterato due terzi delle terre emerse, ad oggi, fino alla fragilità di una società super tecnologica e interconnessa, impreparata però ad affrontare una minaccia improvvisa ma per nulla imprevista.
Le buffer zones e i 9 “fattori chiave”
Nel 2004 nel corso della conferenza internazionale organizzata dalla Wildlife Conservation Society – ospitata dalla Rockfeller University – scienziati ed esperti di salute di tutto il mondo si confrontarono nel simposio “One World, One Health” esprimendo per la prima volta una visione comune secondo cui la salute umana, animale e dell’ecosistema sono legate in maniera pressoché inscindibile. Oggi, alla luce dello tsunami pandemico, questa visione ci consente di leggere la pandemia tramite un modello interpretativo che mette in evidenza il ruolo dei fattori antropogenici nella genesi del Covid-19. I cambiamenti radicali in uno o più dei 9 processi del sistema Terra minacciano lo spazio operativo “sicuro” per l’umanità. Ciascuno di essi è importante per mantenere stabile il sistema terrestre. Quali sono? Integrità della biosfera, cambiamento climatico, nuove entità biologiche, riduzione dell’ozono, acidificazione dell’oceano, disponibilità di acqua pulita, cambiamenti nel sistema Terra, cambiamenti nell’atmosfera e variazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo. L’urbanizzazione, come sappiamo, ha accelerato negli ultimi decenni il processo di estinzione di migliaia di specie. Se consideriamo i pipistrelli – ha affermato Paolo Vineis, epidemiologo ambientale presso l’Imperial College di Londra – “serbatoio” del coronavirus, possiamo ipotizzare che i cambiamenti climatici e la distruzione dei loro habitat naturali (caverne, ponti, alberi) possano aver favorito un loro spostamento in ambienti più prossimi agli esseri umani e al bestiame, conducendo una pericolosa interazione tra specie animali e specie umana. La crescente urbanizzazione, secondo Vineis, distrugge poi le buffer zones che agiscono da barriere naturali tra uomini e animali. In poche parole: l’espansione delle città ha cancellato spazi di sicurezza tra i luoghi degli animali e quelli in cui viviamo.
Siamo a un bivio?
I recenti studi della United Nations Population Division – dipartimento ONU dedicato agli studi demografici – hanno affermato che il 55,7% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane, frazione che aumenterà fino al 68% entro il 2050. Le metropoli con più di 10milioni di abitanti saranno circa 43 entro il 2030, dopodomani. Le città, oggi, occupano il 3% della superfice terrestre ma consumano l’80% delle risorse alimentari di tutta la Terra, tradotto: sempre più persone mangiano il cibo prodotto da sempre meno persone. Una delle più importanti sfide per il nostro futuro prossimo è ripensare i sistemi alimentari urbani, soluzioni sostenibili per produrre, distribuire e consumare prodotti sani e sicuri per tutti. Una sfida difficile che solo pochissime città hanno iniziato ad affrontare, cuore della civiltà moderna le metropoli sono a un bivio: proseguire sulla via della crescita incontrollata o tramutarsi in motore di un nuovo sviluppo che metta sostenibilità, economia circolare e riduzione degli sprechi al centro di un nuovo paradigma delle società umane.
Il cibo sprecato
Incredibile a dirsi ma il tema del “cibo sprecato” arrovella da anni studiosi di tutti i paesi più industrializzati. Abbiamo due tipologie di “spreco alimentare”, i food loss: alimenti persi in fase di produzione e raccolto, stoccaggio e trasporto; i food waste: alimenti sprecati in fase di distribuzione, somministrazione e a livello domestico. Nel mondo, ogni anno, 1/3 della produzione di cibo va persa o sprecata rispetto alla produzione alimentare mondiale, circa 1,3 tonnellate l’anno. Il 14% dei prodotti alimentari si perdono prima di raggiungere la filiera produttiva, l’8% di emissioni globali di gas serra di cui è responsabile lo spreco alimentare (se si trattasse di un Paese sarebbe il 3° più inquinante del pianeta dopo Cina e Stati Uniti). Obiettivo 2030? -50%. Le proiezioni, scaturite dallo studio “Feeding ten billion people is possible within four terrestrial planetary boundaries” condotto dal Potsdam Institute for Climate Impact Research in “Nature Sustainability”, ci dicono che a 3,4 miliardi di persone si potrebbe garantire una dieta bilanciata se si rispettassero i limiti di sostenibilità senza modificare il sistema di produzione alimentare; si potrebbero sfamare 7,3 miliardi di persone in maniera sostenibile, grazie alla riorganizzazione delle tecniche agricole; mentre si potrebbero sfamare 10,2 miliardi di persone diminuendo gli sprechi e rivendendo i consumi alimentari. Ce la faremo? A questo gli scienziati non hanno risposto, ma hanno indicato una via che se intrapresa porterà di certo grandi benefici. Gli alimenti che gettiamo rappresentano la terza fonte di emissioni di CO2 del pianeta, c’è chi muore di fame e chi lotta contro l’obesità: due contrasti che ben rappresentano le fratture dei sistemi societari del nostro pianeta. L’obiettivo 2 dell’Agenda 2030 mira all’azzeramento della fame e a promuovere l’agricoltura sostenibile.
Il ruolo delle comunità locali per una riforma dei sistemi alimentari
Il sistema alimentare, quindi, è al crocevia di alcune delle sfide più importanti del nostro tempo: combattere i cambiamenti climatici, garantire l’accesso al cibo sano per tutti, ridurre gli sprechi alimentari e arrestare la perdita di biodiversità. Il metabolismo urbano crescerà, le città sono inoltre teatro di forti diseguaglianze: il 90% delle persone che vivono negli slum degradati del Sud globale soffrono di insicurezza alimentare. La pandemia ha dimostrato come tutte le città siano fortemente interdipendenti rispetto shock esterni e bisogna ripensare il modo in cui il cibo è prodotto, trasportato e distribuito, consumato e smaltito nelle nostre comunità. Alcune città come Toronto e Milano hanno dato vita, ad esempio, a politiche alimentari integrate – food policies – organizzando tutti i settori che influenzano il cibo nelle nostre città; altre come Lima, Parigi e Rio de Janeiro stanno puntando su iniziative più settoriali per sostenere l’agricoltura urbana; altre ancora come New York, Copenhagen e Seoul, stanno trasformando le mense pubbliche per promuovere menù più sostenibili ed educare i cittadini a cambiare dieta. Insomma, qualcosa inizia a muoversi finalmente.
Cosa possiamo fare per il nostro pianeta? L’occasione della ricostruzione
Le nostre azioni individuali non possono risolvere i mali globali. Ognuno però può fare la sua parte per ridurre i problemi ambientali e cercare nuove soluzioni a vecchi problemi. Dalla gestione dei nostri appartamenti – penso all’isolamento termico e agli sprechi alimentari – alla spesa, alla cura del quartiere ed alle iniziative di promozione di temi trasversali e utili per la comunità.
Il 2021 inizia quindi accompagnato dalla sfida della ricostruzione dopo la pandemia. Non è facile trovare nei libri di storia moderna e contemporanea un fenomeno capace di essere così globale, un attacco a sorpresa da parte di un nemico invisibile, un pesante bilancio di vittime e danni economici senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. E’ urgente quindi affrontare le ferite delle diseguaglianze di reddito, di genere, sociali e geografiche che la pandemia ha accentuato. La ricostruzione costituisce anche una straordinaria opportunità per unire più paesi intorno a necessità condivise: dal clima alle nuove fonti energetiche, dalla crescita economica, circolare e sostenibile, alla creazione di nuove forme di interazione meno aggressive e più mediate. Riusciremo nell’impresa? La sfida è questa.
Nel nostro piccolo continueremo a raccontare la società e il mondo in cui viviamo attraverso i tanti autori e le nuove collaborazioni che nell’ultimo anno hanno arricchito il nostro giornale, la nascita della sezione “comunicazione” aprirà nuovi orizzonti di osservazione e rappresenta il nostro continuo mutare e la nostra costante propensione alla ricerca. Buon anno a tutti!
*Roberto Sciarrone, direttore responsabile di Verbum Press