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“Per fortuna ci sono i colori”

Arte, Shoa e Memoria raccontate da Alan David Baumann, “portatore sano di cultura”

Incontriamo Alan David Baumann nella sua casa nel cuore di Trastevere, circondato dalle opere dei genitori, la pittrice ebrea di fama mondiale Eva Fischer (1920-2015) e Alberto Baumann, (1933-2014) figura poliedrica dal grande talento. Alan parla della sua famiglia, dagli anni terribili della Guerra a quelli vissuti a Roma. E della sua eredità personale: trasmettere attraverso i colori cio’ che è stata la Shoa. Perché la storia più buia dell’umanità non si ripeta mai più.

di Silvia Gambadoro

“Il messaggio nell’arte di mia madre è tutto in una frase che diceva sempre: “Non è arte se non crea emozioni” racconta Alan David Baumann, che in un mattino di pioggia ripercorre la vita di Eva Fischer. Idealmente con  una tela arrotolata sotto il braccio e in sella ad una bicicletta, quest’artista coraggiosa e dall’immenso  talento ha attraversato  gli anni della guerra  e poi del dopoguerra a Roma, dedicando tutta se stessa alla pittura trasmettendo, con i colori,  le emozioni della sua vita.

EVA FISCHER E LA GUERRA

 Alan David Baumann racconta degli anni della giovinezza di sua madre: nata a  Daruvar, nella ex Jugoslavia nel 1920 da genitori di origine ungherese, fin da piccola dimostra la sua predisposizione all’arte: Studia all’Accademia delle belle Arti di Lione ma al suo ritorno trova Belgrado bombardata dai tedeschi, senza dichiarazione di guerra.  Il padre, rabbino di origini ungheresi viene preso dai nazisti. “Mio nonno con altri cugini e zii di mia madre scompaiono, nessuno ha mai saputo ciò che è loro accaduto”. Iniziano i rastrellamenti: dopo gli uomini, i tedeschi prendono le donne e i bambini. “La mia famiglia perde 33 persone care”. Eva fugge con la madre malata e il fratellino di soli 10 anni. In un viaggio rocambolesco pieno di incognite, stenti, paura, passano per l’Albania e raggiungono l’Italia. Si consegnano agli italiani e vengono internati nel campo di prigionia di Vallegrande (Isola di Curzola). Le condizioni di vita qui sono meno dure dei campi tedeschi.  Eva puo’ continuare a dipingere e il suo talento le è d’aiuto. Grazie ad un ritratto fatto al comandante dei carabinieri ottiene il permesso di recarsi a Spalato, sede della milizia fascista, per curare la madre.  Arrivano poi a Bologna, e riesce a procurarsi la falsa identità di Venturi. Sono anni bui, vissuti con l’angoscia nel cuore, ma Eva è forte: con la sua bicicletta, compagna fedele di tante avventure nella sua vita, inizia l’attività partigiana: affigge manifesti che esortano alla lotta contro i nazifascisti.  “Eppure non si è mai sentita una vera partigiana” racconta il figlio, “per lei lo era solo chi combatteva con le armi in mano”. Alan ricorda un episodio drammatico legato a questo momento della vita di sua madre: “l’attività di propaganda antinazista compiuta da Eva non passa inosservata. Un gerarca fascista suo ex vicino di casa a Bologna ha dei sospetti. Un giorno, mentre era in bicicletta a Bologna, un’auto nera la affianca. Scendono due membri della polizia fascista,  uno è il suo vicino di casa che la chiama con il suo vero nome:”Fischer”.  Eva non si volta, mostrando una freddezza fuori dal comune. Riconosce il gerarca ma ribadisce che il suo nome è Venturi.   Viene fatta salire sull’auto e portata fuori Bologna, dove l’aspetta un durissimo interrogatorio. Eva non crolla, il suo sangue freddo la salva: i due gerarchi non hanno prove, la rilasciano.  Ma non è tutto, sottolinea Alan –“mia madre chiede addirittura di essere riaccompagnata dove era stata presa – del resto  ha sempre mostrato un grande coraggio e una grande forza d’animo: anche in famiglia, senza nulla togliere a mio padre, il maschio di casa, era lei”.

GLI ANNI DEL DOPOGUERRA A ROMA

Il racconto di Alan prosegue: finita la guerra Eva sceglie la capitale come città d’adozione. “Roma ha significato molto per mia madre, qui si è dedicata completamente alla pittura”. Agli inizi degli anni ‘60 Eva Fischer era una testimone della scuola romana del dopoguerra. Bazzicava via Margutta e le vie adiacenti, i suoi amici erano Picasso, Chagall, Dalì, De Chirico, ma anche Mafai e Guttuso, Tot, Campigli, Carlo Levi e molti altri esponenti della cultura di quegli anni. “Recentemente ho trovato un vecchio libro di firme degli anni 50, con messaggi di affetto e stima da parte di De Chirico, cartoline di Picasso. C’è un pezzo della storia d’Italia dentro questa casa. A Roma incontra Alberto Baumann, mio padre: si sono conosciuti a Piazza del Popolo, dove mia madre con gli artisti stava da Canova e mio padre con i giornalisti frequentava  Rosati.  Quando si sono sposati nel 1963, il regista del “Ciak Cinegiornale”, fece portare al Campidoglio le biciclette per loro e i loro invitati, realizzando un filmato che è entrato nella storia di quegli anni. 

La bicicletta era per Eva qualcosa di umano, perché l’aveva praticamente anche salvata, a Bologna.  E’uno dei soggetti che ha ripreso più volte in tutta la sua carriera artistica: c’erano le biciclette stanche, le biciclette innamorate, gentili, rotte, annoiate…”. Oltre le biciclette, Eva Fischer ha dipinto i mercati, il Mediterraneo, i paesaggi, le nature morte, le scuole di ballo, i ritratti, i voli, le vetrate della sinagoga centrale di Roma. Producendo più di mille opere, usando tecniche diverse ed esponendo in 132 mostre personali.

EVA FISCHER E L’ARTE

“Con mia madre parlavamo spesso negli ultimi anni di ciò che è arte nel XXI secolo. Con rammarico notava come oggi si vada semplicemente alla ricerca del materiale, dell’esteriore: bellissimi soprammobili, involucri splendidi, ma vuoti.  Un quadro oggi è un’immagine fissa, che nasce semplicemente per piacere.  Per mia madre invece, dipingere è stato qualcosa di molto diverso: significava andare in giro con la sua tavolozza e il cavalletto, alla ricerca di ciò che crea emozioni, suggestioni, impressioni. Il colore è uno degli elementi fondamentali dell’arte pittorica di mia madre, ed io sono cresciuto circondato da tante opere che mi raccontano ogni giorno nuove storie ed emozioni sempre diverse.   Negli anni 50 ad esempio, Eva aveva ottenuto il permesso di assistere alle prove dell’orchestra della rai o Eiar, ne nacquero i suoi quadri “musicali”. Da foto di giornali dell’epoca rivedo mia madre che disegna il sassofonista sdraiata sotto un pianoforte, come farebbe un qualsiasi tecnico oggi. Da citare il legame culturale e di amicizia con Ennio Morricone, suo vicino di casa, sfociato nel 1992 con un cd con le musiche del maestro,  dal titolo: “A Eva Fischer pittore” e   pubblicato insieme ad  un libro con i  dipinti  di Eva ispirati alla musica di  Morricone. Nelle sue opere domina il colore, anche se è sempre presente una malinconia sua personale, per non parlare del Diario Segreto, le opere legate alla Shoa, “i labirinti della memoria” dedicati a suo padre e a tutti coloro che non sono tornati dai campi di sterminio nazista.

LA SCOPERTA DEL DIARIO SEGRETO DI EVA FISCHER I LABIRINTI DELLA MEMORIA

“Fin da piccolo mia madre mi portava nel suo studio, e mentre mangiavo bruschette o piantavo chiodi nel muro mia madre dipingeva… Vedevo sempre nascere i suoi quadri. 

Verso la fine degli anni 80 per caso con mio padre ci accorgemmo di alcune opere accatastate in un angolo, dalla tematica a noi nuova, legata all’Olocausto, alla Shoa: era un “diario segreto”, attraverso il quale Eva era riuscita a esternare e a rappresentare il dramma  e il dolore di  quel periodo. Aveva tenuto nascoste queste tele per oltre 50 anni. 

I nazisti con l’olocausto avevano tentato di cancellare l’umanità delle persone che avevano la sola colpa di essere nate. Le prime testimonianze dei sopravvissuti alla Shoa risalgono tutte allo stesso periodo, e credo che il motivo del silenzio perpetrato per così tanto tempo fosse legato ad una sorta di pudore, un senso di vergogna, per essere rimasti in vita con 6 milioni di morti. Ricordo un aneddoto, risalente all’epoca della guerra dei 6 giorni, nel 1967, quando mio padre fu mandato come inviato di guerra in Israele: arrivato a Gerusalemme prese uno “sherut”, un taxi collettivo – e qui conobbe un uomo che quando gli parlava si nascondeva la bocca, come vergognandosi: questa persona aveva un numero sul braccio: era un ex deportato. L’incontro lo colpì profondamente: comprese che era lo stesso disagio provato da tutti coloro scampati all’orrore dei campi di sterminio.

ALBERTO BAUMANN, MIO PADRE

La Shoà ha cambiato anche la vita di mio padre, Alberto Baumann.  Era figlio di un inviato di guerra ungherese che aveva combattuto nel primo conflitto mondiale e poi spedito al confino dal regime fascista perché ebreo e apolide. Mio padre a sei anni rimase orfano della madre, Estelle Piperno. A causa delle leggi razziali non poté frequentare le scuole.  A soli 10 anni fu costretto a fuggire da Montecatini, dove viveva con i nonni, per via delle incursioni naziste.  Trovò rifugio nelle campagne toscane dove fu accolto da una famiglia di gitani fiorentini dove apprese varie arti circensi. Anche per lui il bilancio della guerra fu tragico. Perse 7 congiunti nelle deportazioni.  Questo suo passato travagliato e doloroso ha contribuito a forgiarne la fantasia e il genio. Dopo la guerra mio padre lavorò in vari paesi Svizzera, Germania, Milano, e poi venne a Roma, agli inizi degli anni 50.  E’ stato giornalista scrittore e poeta, ha fondato il giornale Shalom. Poi negli anni 80 è approdato alla scultura e alla pittura. Era un astrattista, e per lui l’arte era la testimonianza di un’epoca. “L’artista ha la fortuna di poter trasmettere il proprio tempo”, diceva. Oggi abbiamo le immagini, l’informatica,  ma non lasciano libertà di fantasia.  E’ tutto troppo diretto e immediato. Uno dei giochi più belli di questa casa ai quali partecipavo era l’intitolazione delle opere d’arte: ognuno di noi interpretava l’opera e piano piano si doveva arrivare a un’idea.  E’ uno dei ricordi più belli che ho della mia famiglia”.

PER NON DIMENTICARE   

Alan Davìd Baumann ci parla del suo impegno per spiegare alle nuove generazioni cosa è stato l’Olocausto e dei suoi incontri con i giovani:   

“In occasione della Giornata della memoria, attorno alla data del 27 gennaio, porto dal 1997 nelle scuole di ogni ordine e grado, alcuni dipinti del “diario segreto” della pittrice Eva Fischer (www.evafischer.com), mia madre,  e cerco di trasmettere cosa è stata la Shoah.  E’ bello vedere la partecipazione e lo stupore dei ragazzi, che spesso si commuovono. Per alleggerire l’impatto di ciò che racconto come testimone di seconda generazione, spesso uso un vecchio trucco, specialmente con i più piccoli: utilizzo la pronuncia di Eva, che parlava perfettamente 8 lingue, ma tutte con un forte accento ungherese. Pur ridendo i ragazzi arrivano al punto cruciale, ossia alla presa di coscienza del fatto che l’uomo è stato capace di un tale orrore e la consapevolezza che quel che è accaduto non deve più accadere. Sono stato anche vice coordinatore italiano della Survivors of the Shoah Foundation, la fondazione creata da Steven Spielberg per registrare in video le testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio, alle Leggi Razziali, all’occupazione.

Ho avuto poi la grande gioia e fortuna di incontrare Miriam di Pasquale (www.mariadipasquale.com), professore accademico pianista presso la Fondazione Milano” prosegue Baumann, “e con lei abbiamo scritto un concerto-teatrale, Musicaust (www.musicaust.it). L’iniziativa è nata dal ritrovamento da parte di Miriam di alcune musiche di autrici che hanno vissuto durante il periodo della Shoah: alcune deportate, altre solamente discriminate e nascoste. Queste donne, pur vivendo nella clandestinità, organizzavano concerti perché ritenevano che la cultura fosse l’unica forma per sopravvivere al nazismo. Tra i vari pezzi musicali di compositrici che hanno patito quei drammatici momenti, abbiamo inserito delle testimonianze video o raccontate.  Il popolo ebraico è scampato a tanti nazismi, a tanti olocausti grazie alla propria cultura, alla capacità di andare oltre, di superare l’orrore, grazia alla fantasia. Credo che l’olocausto sia un’epoca e come tale vada trasmessa anzitutto perché la negazione è l’anteprima della ripetizione: per evitare che la storia e l’orrore si ripeta. Oltre al concerto abbiamo realizzato un adattamento per le scuole, chiamato “Uno due tre stella”. I ragazzi potranno capire, attraverso un gioco, cos’è stato il periodo della discriminazione, il crudele e insensato destino dei condannati a morte nei lager per il solo fatto di essere nati ebrei. Con questo progetto abbiamo sovrapposto la musica ad altre forme artistiche, cercando di raccontare la storia recente con la forza dei colori e delle note.” Baumann si occupa da sempre di Arte, editoria e comunicazione.  E’ Direttore Responsabile della testata giornalistica online “L’ideale – informazione oltre le consuetudini”, nata nel 2005 (www.lideale.info). Da oltre 25 anni, si occupa di relazioni pubbliche, ufficio stampa, organizzazione di eventi, webmaster. Ha fondato nel 2015 “ABEF – archivio Baumann e Fischer” (www.abef.it) e Covid a parte, sta per prendere vita la “Fondazione Eva Fischer”, che si occuperà di divulgazione della cultura. Come ci dice sorridendo: “Sono portatore sano di cultura e mi auguro di riuscire ad infettare il maggior numero di persone possibili”.

*Silvia Gambadoro, giornalista