Intervista a Giuseppe Motta, Sapienza Università di Roma
Ser Arthur Conan Doyle ci racconta nel suo “Il crimine del Congo”, con una realtà cruda e sincera, le atrocità commesse ai danni della popolazione del Congo belga da parte del regime coloniale di Re Leopoldo II ai primi del ‘900.
Una raccolta di eventi e vicissitudini da non sembrare, quasi, appartenere al secolo scorso, e, seppur con qualche differenza lieve, ma non sostanziale, lo specchio dell’attuale società vissuta nel Sud del mondo.
La redazione di quest’opera di grande rilevanza socio – culturale è stata curata dal prof. Giuseppe Motta, della Sapienza di Roma, che abbiamo intervistato.
“ll crimine del Congo”. Leggendo il libro sembra quasi di non essere in un periodo storico ormai passato. Il parallelismo con i recenti episodi di “black lives metters” ?
Nell’opera di Conan Doyle c’è sicuramente una visione eurocentrica dei rapporti con il c.d. Terzo Mondo e un approccio paternalistico nei confronti delle popolazioni indigene, che all’epoca era chiaramente dettato dalla mentalità predominante ma anche dall’enorme distanza esistente fra la realtà europea, in piena belle époque, e la dimensione selvaggia, inesplorata e “primitiva” dei territori che venivano colonizzati. Nelle recenti problematiche emerse negli Stati Uniti si nota la stessa violenza, che oggi, in un contesto “civilizzato” come quello americano, risulta infinitamente più grave, se possibile fare paragoni in materia di brutalità. Certo la rimozione delle statue di Leopoldo II in Congo ripropone, molto tardivamente a mio giudizio, la questione della glorificazione di governanti che andrebbero valutati per quanto fatto e non per i soldi spesi in propaganda. E questo oggi mi sembra un tema attualissimo.
Come Doyle viene accolto nella lettura dalle “nuove generazioni”.
Premetto di non aver, ahimè, alcun titolo per parlare di “nuove generazioni”. Io credo comunque che Doyle appartenga a quella categoria di autori che possono essere letti anche a distanza di secoli, proprio perché al centro della sua opera pone quegli istinti “criminali” che molti esseri umani sembrano invece voler coltivare sempre più ostinatamente.
“Il crimine del Congo” inquadra un periodo dai risvolti storici importanti, ma spesso non approfonditi. È un pensiero errato o veritiero? E se si, come mai?
Personalmente condivido questa opinione. Se pensiamo ai massacri tedeschi in Namibia nello stesso periodo o agli innumerevoli episodi di violenza verso interi popoli compiuti nel corso del XX secolo mi chiedo spesso perché molti storici non dirigano la propria ricerca verso questi aspetti meno conosciuti del nostro passato.
Cosa pensa un docente di storia del periodo in cui stiamo vivendo? È un “ricorso” del passato?
Personalmente mi sono occupato spesso della Conferenza di Pace di Versailles (1919) e del suo impatto a livello internazionale e mi sembra di notare che molte delle problematiche attuali, penso al conflitto israelo-palestinese ma anche alla questione ucraina, abbiano origine proprio nei nodi irrisolti di quei mesi che cambiarono profondamente il mondo, come suggerito nel volume di Margaret MacMillan, Paris 1919: Six Months That Changed the World.
Un parere unicamente personale dei diffusi episodi di violenza a danno della società afroamericana registrati nelle scorse settimane. È il frutto di un pensiero sociale distorto tramandatosi da generazioni o l’inasprimento di un sentimento già preesistente?
Francamente mi pare che gli elementi principali di questo tragico fenomeno siano sempre gli stessi, purtroppo ricorrenti nella storia americana e non solo. Scegliere dei governanti di un certo tipo, inoltre, non aiuta sicuramente a progredire e aggiunge ulteriore benzina sul fuoco delle proteste razziali.
L’idea di “inferiorità” di una razza al posto di un’altra è soltanto un pretesto per nascondere la più aspra sete di potere o, invero, proprio un’idea ancorata nel periodo inquadrato da Doyle?
Prima di tutto mi sembra che tale idea, purtroppo, non sia solo ancorata solo al periodo di Arthur Conan Doyle ma ancora piuttosto evidente nel quotidiano. Basti pensare alle dichiarazioni di certi giornalisti italiani, che trovo personalmente ripugnanti oltre ogni limite, che in televisione e sulla carta stampata si permettono di definire inferiori i propri connazionali di altre regioni. La cosa che purtroppo mi rattrista e che mi delude profondamente è che personaggi di questo tipo, oltre ai loro omologhi politici, trovino lettori ed elettori che al di là di ogni dignità non abbiano di meglio che ascoltarli. E qui ho la conferma che purtroppo, oltre alla sete di potere che coinvolge la classe politica con i loro pennivendoli a libro paga, le idee di superiorità della propria razza o gruppo etnico, classe sociale o comunità politica siano ben presenti in ampi strati della popolazione, seppur istruita e diciamo “civilizzata”.
*Domenica Puleio, giornalista