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Il male ad un passo dal covid

Il simbolo moderno del male è il personaggio di Joker, clown assassino psicopatico, oltreché nemesi di Batman nella celebre serie di fumetti pubblicata negli anni ‘40 in America dalla DC Comics e poi riproposto in più versioni filmiche. Non è forse un caso che sia un disegno, perché rappresenta il male come stereotipo, manifesto ecumenico, trasversale, categoria per eccellenza e nello stesso modo riconoscibile come male naturale. La sua dimensione immaginaria, liberata da orpelli e retoriche è una sorta di misura massima alla quale di volta in volta paragonare il male generato dall’uomo. 

Il male ha sempre avuto una forma canonica, si è articolato in archetipi, ha seguito processi più o meno individuabili. E quindi ha avuto un proprio modello, una propria forma predefinita, e proprio all’interno di questo perimetro siamo disposti ad analizzarlo e perfino a giustificarlo. Tutti abbiamo negli occhi le facce di probabili assassini, di carnefici, di pazzi paranoici, nuovi mostri che ci arrivano in casa attraverso gli schermi, gli smart, i pixel; tutti, abbiamo gli occhi aperti sulle loro vittime, altrettanto nuove icone, quasi tutte al femminile.  Questa è l’idea nuova del male. Di questa umanità trafitta si sono appropriati i media. In tv sfilano sagome disegnate su pavimenti insanguinati, plastici dei luoghi del delitto, impronte, fori lasciati dai proiettili, cappi e manette, pistole, pugnali, coltelli, rasoi. Facce anonime strappate al formato tessera, video di vite che non esistono più, immagini immobili di morte, e il racconto delle tragedie, le prove vere o presunte, le intercettazioni, le ricostruzioni, i processi che anticipano quelli veri, a volte (molte) con morboso compiacimento per l’orrore raccontato. 

Il pensiero del male si è oggi emancipato da ogni forma di condizionamento o giudizio morale, ha troncato ogni radice con il passato, si è dissociato da ogni origine. Insomma, il male ha una identità autonoma: non deve più essere giustificato, non deve essere più essere legittimato, non deve essere più riconosciuto. 

Per Aristotele se dall’agire dipendono le nostre buone azioni, anche le cattive azioni dipenderanno dal nostro non agire”.  

Seneca non andava tanto per il sottile. Racconta di uccisioni anche all’interno della famiglia, di incesti e parricidi, di rituali e di magia nera, di maledizioni e di macabre predizioni. In Seneca c’è tutto l’almanacco del male sotto forma spettacolare e il male domina insomma incontrastato, nella sua versione irrazionale. 

Zarathustra se la prendeva con i virtuosi, i saggi e i buoni. E può ben essere, questa versione, la nova filosofia contemporanea del male: isolare i ben intenzionati, i bravi, gli intransigenti, e far sembrare buono ciò che non lo è. 

La concezione del male secondo Kant è in sostanzia vicina a quella di Pascal. E’ il teorema del radikal böse, il male radicale, che si ritrova nell’indole e nell’esistenza di ogni persona e si contrappone alla pure naturale predisposizione al bene ed alla volontà buona, anlage. E sulla faccenda non mancano le polemiche, neanche a farlo apposta violente. Kant, che pure ha influenzato parecchi pensatori, è accusato da  Goethe ( e siamo tra colossi del pensiero), di aver “imbrattato con la macchia vergognosa del male radicale tutto il proprio impianto filosofico.”

 Ma la pandemia che tipo di male è? E’ un male soltanto fisico? Sembrerebbe di no. Tutte le malattie lo sono fino a quando non si manifestano, ma il Covid ha reso visibile il male invisibile per eccellenza, e non solo perché la sua identità è stata ripresa, fotografata animata in tutti i modi dai social media, come un divo mediatico, ma perché il virus è diventato un compagno seppure scomodo delle nostre conversazioni, dei nostri soliloqui. Spesso siamo abituati a conversare con il male. Ciascuno di noi ne ha una percentuale minima o alta dentro di se e spesso la tiene a colloquio, la rimprovera, o anche l’incoraggia. Il virus non sembra dare importanza alle nostre parole, se ne sta nascosto in una zona d’ombra, silenzioso, e ascolta.

Non è il grado di forza del malefizio a disorientarci, quanto piuttosto la sua mancata corrispondenza a quel modello condiviso e nei confronti del quale sono già previste le risposte. Qualsiasi variabile ci disorienta, ci annichilisce, ci lascia turbati e indecisi. Per questo abbiamo più paura del Covid, non perché sia una infezione, non perché sia un morbo mortale. Solo perché è un male che non riusciamo a capire.

Per molto tempo abbiamo vissuto sotto l’incubo di in pericolo al quale non abbiamo mai dato una identità precisa, ma sapevamo che c’era, che sarebbe comparso come esito di una epifania, lo abbiamo avvertito, lo abbiamo sentito e ancora adesso lo sentiamo. Solo non ne immaginavamo la forma e soprattutto la vastità. Abbiamo avuto paura per le stragi dell’Isis, per i terremoti, per le tante “terre dei fuochi”. Ma il Covid è piuttosto la catastrofe, culmine del male che si stempera in una sorta di anabasi del pensiero. Visti i tempi, però, è certo che la moderna metafora del male sia ormai lontana dal canto delle Sirene che ammaliò Ulisse e lo invitò all’abbandono dei sensi ed all’oblio. Insomma, se il male da sempre è considerato una specie di incantesimo, qualcosa di attraente che provoca e affascina, a questi stereotipi, alla visione tradizionale, se ne deve aggiunge una nuova molto più complessa e tuttavia immediata. Il male è stato accettato come una delle tante espressioni dell’essere, non più come un fatto eccezionale. E tante volte non si cerca più di capirne le ragioni. E l’assuefazione a ciò che pure riconosciamo come il male può essere sconvolta, come per il Covid 19, soltanto dalla sua inusualità. 

*Bruno Pezzella, scrittore