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Femminilità e femminismo nelle scrittrici italiane tra fine Ottocento e Novecento

I parte 

Il senso complessivo della presenza della donna nella scrittura letteraria può delinearsi attraverso due tradizionali settori di ricerca molto ampi, sia per la molteplicità dei testi da vagliare, sia per la quantità delle ipotesi da verificare e confrontare. Da una parte abbiamo infatti i personaggi femminili rappresentati dagli scrittori e dall’altra la letteratura al femminile a cui hanno dato vita nel tempo le scrittrici. Esiste tuttavia anche un terzo percorso di analisi, collaterale all’osservazione della figura femminile come oggetto o come soggetto dell’opera letteraria, ed è l’esame delle identità del personaggio-donna proposte da alcune scrittrici in un determinato arco spazio-temporale di civiltà. Tale indirizzo di studio non considera quindi le opere delle scrittrici come un genere letterario a sé, individuabile attraverso la discriminante del genere di chi scrive, ma mira  piuttosto di mettere a fuoco le possibili relazioni tra le donne-personaggio create da donne-scrittrici con la tradizione letteraria, con il contesto storico e con la mentalità di un’epoca, che nel caso in esame è l’Italia tra fine Ottocento e  Novecento.

Una premessa necessaria all’avvio del discorso è l’assenza pressoché totale nella letteratura postunitaria della rappresentazione del vissuto femminile nell’ottica dell’emancipazione. Tale assenza si riscontra non solo nelle opere degli scrittori, ma anche, tranne sparute eccezioni, in quella delle scrittrici, che continuano a utilizzare i modelli tradizionali della donna moglie e madre e  a queste figure rassicuranti e positive contrappongono il mito della donna fatale di ascendenza romantico decadente, che aveva trovato ne Il piacere di d’Annunzio la sua più riuscita e imitata personificazione in Elena Muti, l’amante fascinosa e infedele del protagonista Andrea Sperelli.  Solo all’inizio del nuovo secolo si levò, pressoché isolata, la voce di Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Pierangeli Faccio) per stigmatizzare l’ossessiva ricorrenza di figure letterarie stereotipate del mondo femminile proposte dagli autori più famosi e riprese dalla narrativa di consumo. Figure che l’autrice di Una donna definì “Vane, capricciose, isteriche, falsamente sentimentali, boriosamente spirituali”. Sulle stesse figure si appuntò l’ironia di Giampiero Lucini nelle sue Letture di Eva Biondina: “Oh, Signorina, / fragile compromesso di isterismo / riccioli, ciprie, battiste e crine, Eva Bionda, Biondina, / riavvolta-discinta sulla chaise-longue, / stanca e oppressa e vaneggiante; la testa vi si inchina / sul libro miniato dai perfidi segni moderni e salaci, / sopra le pagine che vi fan vivere, / intensamente, un illustre peccato”. 

Le scrittrici italiane operanti nei primi decenni del Novecento, diversamente da altri stati europei, non avevano d’altra parte avuto grandi madri ottocentesche come l’inglese George Eliot e la francese George Sand, che nella loro vita e nelle loro opere levarono la propria denuncia contro le gerarchie di potere a sfavore delle donne. In Italia il disinteresse per le problematiche femministe rimase invece quasi generale e le letterate non si impegnarono con consapevolezza a rappresentare le condizioni esistenziali delle donne e solo in sporadici casi denunciarono l’assoggettamento femminile e la disparità dei diritti tra i due generi. Se il Novecento francese si apre infatti con Colette (Sidonie Gabrielle Colette, 1873-1954), incarnazione della “scrittrice nuova”, disincantata e ribelle, capace di affrontare con determinazione le complicate dinamiche dei rapporti tra uomo e donna, e se in Inghilterra nei primi decenni del nuovo secolo Virginia Stephen Woolf (1882-1939), ricorrendo alla nuova tecnica narrativa dello stream of consciousness, pubblica opere concentrate sull’interiorità femminile, sulla diversità dei sessi e sul rapporto tra donne e letteratura, in Italia le scrittrici di maggior successo, Neera, Matilde Serao, Marchesa Colombi e la stessa Grazia Deledda, insignita nel 1926 del premio Nobel per la letteratura, si rivelano disinteressate a infrangere gli schemi dominanti nel destino delle donne.

Neera (alias Anna Radius Zuccari)

Nei romanzi di Neera, pseudonimo oraziano di Anna Zuccari Radius (1846-1918), scrittrice naturalista e amica di Capuana e di Croce, il tema dominante è sì il vissuto femminile, ma in definitiva si accetta il ruolo socialmente subordinato delle donne, pur rivendicando il valore della loro sensibilità soffocata dalla mediocrità della realtà quotidiana. La scrittrice si tiene così a distanza dagli ideali di parità tra i sessi, dichiarandosi contraria al voto alle donne e ai comportamenti “disdicevoli” dettati dall’emancipazionismo ed elabora nella sua vasta produzione romanzesca un modello femminile condizionato dall’esterno e privo di una propria attività intellettuale. Il personaggio-donna di Neera è dotato solo del suo intuito per contrapporsi all’uomo, considerato invece portatore di ideali rivelati e dotato della parola. Ricorrono i personaggi dell’orfana sola, della fanciulla ignara, dell’adolescente dedita a un oscuro lavoro, della donna segregata nelle stanze più appartate della casa, in pericolo di cadere nell’insidia del sesso e redenta infine dal ruolo di moglie e di madre, come accade a Minna, protagonista del romanzo Duello d’anime (1911),  forse il personaggio femminile più completo creato da Neera, che divenendo madre acquisisce consapevolezza della sua capacità di creazione e allarga l’esperienza individuale della vita all’esperienza del mondo.  Neera conferma con chiarezza la subalternità della condizione femminile in Idee di una donna (1903), ribadendo la sacralità e il primato dei ruoli di moglie e madre nel destino femminile, ma nonostante dalle sue figure di donne non si possano attendere ideali rivoluzionari e lotte per la liberazione, tuttavia esse esprimono la consapevolezza di essere state educate alla venerazione della superiorità dell’uomo. Esemplare in tal senso il romanzo  Teresa, in cui un’antieroina piccolo borghese rivive l’odissea della diversità femminile messa a confronto con la libertà maschile. La scrittrice si concentra sul limitato campo d’azione della donna, sugli impedimenti impostile dalla famiglia e dalle consuetudini sociali, sulla repressione sessuofoba esercitata su di lei, offrendo un efficace ritratto della condizione femminile e concedendo infine alla sua protagonista un’occasione di libera scelta.

Matilde Serao

Matilde Serao (1856-1927), come Neera, si colloca tra le rappresentanti del verismo. È Napoli, la città dove visse a lungo, lo scenario della maggior parte dei suoi romanzi e racconti, che narrano la variopinta umanità che ritroviamo in Il ventre di Napoli (1884),  Il paese di Cuccagna (1891), La ballerina (1899), Fantasia (1901), Suor Giovanna della Croce (1901), narrazioni simili a studi d’ambiente e di persone. La Serao occupa un posto da capofila nella letteratura femminile italiana perché fu la prima a imboccare la strada della scrittura come professione, impegnandosi attivamente nella doppia attività di scrittrice e giornalista e fondando con il marito Edoardo Scarfoglio un sodalizio dal quale nacquero il “Corriere di Roma”, il “Corriere di Napoli” e “Il Mattino”. Dopo la rottura del matrimonio, fondò e diresse “Il Giorno di Napoli”, diventando la prima direttrice di un quotidiano italiano. Da una donna indubbiamente emancipata, in grado di affrontare con successo impegnative esperienze professionali e scabrose vicende private, sarebbe ragionevole attendersi una naturale disponibilità alle problematiche della questione femminile, mentre la rappresentazione delle donne negli scritti della Serao appare del tutto estranea agli ideali del femminismo. Le sue protagoniste vivono un’esistenza prigioniera, alla perenne ricerca della felicità. Esemplare in tal senso è la protagonista del romanzo Le virtù di Checchina (1884), una signora della piccola borghesia, vittima di un matrimonio sbagliato con un uomo volgare, che per evadere tenta un’avventura con un marchese ma fallisce, trattenuta dalla sua “virtù”. La rappresentazione del vissuto femminile si riduce in definitiva per la Serao a una serie di sfortunate storie sentimentali, come avviene in due suoi romanzi di gran successo, Addio amore (1890) e Castigo (1893). La sua collocazione tra le antifemministe fu esplicita. Si oppose infatti al diritto elettorale femminile e all’emancipazionismo che avrebbe a suo parere spinto le donne a comportamenti immorali. Rimane comunque stridente una tale discordanza tra l’esperienza di vita e l’ideologia conservatrice espressa nei suoi scritti dalla Serao, che di sé scriveva: “Scrivo dappertutto e di tutto con audacia unica, conquisto il mio posto a furia di gomitate, di urti, con fitto e ardente desiderio di arrivare […] non do ascolto alle debolezze del mio sesso e tiro avanti per la via come fossi un giovanotto”. 

Appartata e lontana dalla spinta emancipazionista appare paradossalmente proprio la scrittrice italiana che divenne l’emblema ufficiale dei traguardi internazionali raggiungibili dalle scrittrici con l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

Grazia Cosima Deledda

La nuorese autodidatta Grazia Cosima Deledda (1871-1936) non sceglie infatti di narrare specificamente il vissuto femminile delle donne nel Meridione dopo l’Unità d’Italia, ma lo include nella sua ampia riflessione romanzesca sugli oppressi. Nelle sue numerose opere, le più importanti delle quali, Elias Portolu (1903), Cenere (1904), Canne Al vento (1913), furono scritte nei primi anni del Novecento, la scrittrice sarda dimostra una totale adesione alla sua terra barbaricina, presto abbandonata dopo il matrimonio e il trasferimento nella capitale, che rimane però a lungo il luogo mitico dove vivono e agiscono le grandi forze del bene e del male, della passione e del peccato, i segreti di antiche violazioni e di delitti, le redenzioni e le catarsi. Anche se le storie ambientate nell’isola sono vicine al romanzo regionalistico verista, la narrativa deleddiana dà grande respiro all’interiorità dei personaggi e alla trasfigurazione simbolica delle loro azioni, eludendo i modelli narrativi tardoromantici e d’appendice e coniando uno stile lirico e fiabesco difficilmente rapportabile a un unico movimento letterario. Riflessioni discordanti si possono formulare anche sulle sue modalità di raffigurazione della donna, che in alcuni romanzi è elemento di divisione, si veda Elias Portolu, storia di un contrasto tra due fratelli che amano la stessa donna, altrove è invece figura silenziosa e repressa, rinchiusa nella casa e privata della vitalità e dell’amore, come avviene per Esther, Ruth e Noemi, le sorelle Pintor di Canne al vento. Nella loro casa per vent’anni tutto è avvolto nel buio e nell’immobilità, interrotti dall’arrivo del disinvolto ed estroverso nipote Giacinto, figlio della sorella Lia fuggita giovanissima in continente, che scardina l’equilibrio dell’antica e nobile casata e scatena nell’animo della zia Noemi una forte passione, destinata a rimanere segreta. Un diverso  personaggio femminile compare ancora nel romanzo La madre (1920), la cui protagonista, un’umile serva, è vissuta tra le più dure privazioni alfine premiate da un riscatto sociale quando suo figlio diventa parroco del paese dov’è nata. Tutti i sacrifici della madre sono però sul punto di essere vanificati dalla passione nata tra il giovane prete e una ricca ereditiera. Sarà solo il sacrificio della madre a purificare l’errore del figlio a prezzo della vita. Alla serie di queste potenti raffigurazioni del femminile deleddiano si aggiunge la parziale autobiografia postuma Cosima (1937), che dimostra come anche la stessa la vicenda esistenziale della scrittrice non possa essere considerata avulsa dalla generale condizione storica in cui vivevano le donne. Il romanzo consente infatti di mettere in luce la limitata esperienza del mondo e il drastico isolamento dalla storia contemporanea che segnarono la vita e la personalità della Deledda e che ricorrono anche nella sua narrativa. Gli anni narrati in Cosima prendono le mosse dai primi ricordi di Nuoro e della arcaica quiete della casa paterna a cui la scrittrice rimase sempre legata, rimanendo fedele alla sua concezione patriarcale dell’esistenza. Dominante è la figura del padre Antonio, molto caro a Cosima, che invece nutre scarsa stima per la madre sottomessa e religiosamente rassegnata alle numerose disgrazie che scossero la vita familiare durante l’infanzia e l’adolescenza della protagonista del racconto. Alla plumbea arretratezza in cui si svolge la prima parte dell’esistenza di Cosima si unisce il rifiuto dell’ambiente nuorese per la sua nascente vocazione letteraria. Presto matura nella giovane la decisione di evadere da quella prigione e l’occasione, come avveniva per la maggior parte delle donne che all’epoca volevano dare una svolta alla propria vita, le sarà offerta dal matrimonio. Il romanzo si conclude significativamente con l’arrivo di Cosima a Cagliari, le nozze con un impiegato romano, “l’uomo della salvezza”, la partenza dall’isola e l’agognato trasferimento a Roma nel 1900. Da quell’anno, sino alla morte, Grazia – Cosima Deledda si dedica alla scrittura e alla famiglia e conduce una vita ritiratissima, come se non volesse più confrontarsi con il mondo del presente. La sua immaginazione è proiettata nel passato, nell’atavico mondo isolano da cui è fuggita, che nei suoi scritti non è connotato da condanna e amarezza ma anzi cresce nella memoria dando vita a una narrazione autobiografica autentica. Come la sua autrice, Cosima non è una donna libera ed emancipata, non risolve la sua repressione e i suoi pudori e la sua visione del mondo rimane limitata all’“epopea del vicinato”, secondo la definizione di Antonio Borgese. Nell’opera fuori dal tempo della Deledda è infatti come se la storia procedesse quasi casualmente e anche per questa incapacità di raccontare il Novecento, a giudizio di Benedetto Croce, non esiste un romanzo-capolavoro della Deledda, perché ogni suo romanzo rimanipola storie già narrate e non riesce a superare gli altri, rimanendo nella sfera della perifericità.

Più che dai romanzi della celebre Grazia Deledda, ambientati in un mondo mitico e sospeso, testimonianze calzanti sulla vita contemporanea delle donne del primo Novecento si colgono in quella particolare produzione narrativa delle scrittrici che prendendo le distanze dal dannunzianesimo e dal verismo raccontarono i muti drammi delle donne comuni, prive di qualsiasi autonomia sentimentale e di scelta, appiattite all’asfittico ritmo del quotidiano. Si tratta a volte di svelamenti involontari della durezza e dell’inutilità a cui erano votate le vite femminili, ma tale filone narrativo riesce in alcuni casi a penetrare dietro la facciata e a documentare l’oggettiva deprivazione delle potenzialità delle donne e ad aprire uno squarcio sulle sofferenze e sugli scialbi cammini delle loro esistenze. Un romanzo modello in tal senso è Un matrimonio in provincia di Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (1840-1920), che risale al 1885, ma che dopo la sua riscoperta nel 1973 da parte di Natalia Ginzburg e Italo Calvino risvegliò l’interesse della critica sull’opera della scrittrice. L’intreccio narra di vicende insignificanti dei ceti medi, di figure femminili sbiadite e mortificate, simili alle romanzesche protagoniste di Neera, che vivono sullo sfondo di stanze domestiche squallidamente disadorne, portando sin nei tratti fisici l’impronta dell’alienazione quotidiana. La storia di Denza, la protagonista del romanzo, non contempla ideali di emancipazione né auspica rivoluzioni esistenziali, ma l’ironia con cui è narrata dà una valenza dissacratoria al racconto, facendo assurgere Un matrimonio in provincia al ruolo di fedele, monotono resoconto dell’imposizione coniugale subita dalle donne, che non comporta comunque inviti alla rassegnazione né vuole assumere un valore consolatorio. 

Sul protofemminismo di Marchesa Colombi influì la collaborazione con la sociologa e giornalista lombarda Anna Maria Mozzoni (1837-1920), traduttrice di The Subjection of Women di John Stuart Mill e conosciuta a Milano nel Liceo femminile “Maria Gaetana Agnesi”, dove insegnarono insieme dal 1870. Autrice di La donna e i suoi rapporti sociali (1864), in cui auspicava che il Risorgimento politico italiano segnasse l’inizio dell’emancipazione femminile, e di numerosi saggi sui diritti civili e politici delle donne, Anna Maria Mozzoni è considerata una delle pioniere del movimento femminista nazionale. Nel suo saggio La liberazione della donna sono raccolte riflessioni sulla mancata emancipazione della donna italiana e sulla necessità che alla nascita della Nuova Italia segua il “risorgimento” delle donne con la piena parità di diritti con gli uomini. Con la Mozzoni, la cui azione di risveglio delle coscienze arriva sino al 1920, anno della morte, siamo alla prima consapevole testimonianza del nuovo ruolo che le donne dovranno ricoprire nella società italiana. 

Si tratta di un caso quasi isolato, se collocato nello scenario della letteratura femminile tra i due secoli, dove splende la stella di un’aprioristica e indiscussa identificazione della donna con la figura materna e dove all’“angelo del focolare” si contrappone la donna sessuata, la peccatrice, il simbolo di passioni erotiche e libertine. La lunga identificazione letteraria della donna con tali modelli antitetici era ideologicamente trasversale e non apparteneva quindi solo agli scrittori e alle scrittrici conservatori. Anche il mazzinianesimo era stato estraneo alla causa emancipazionista e neppure le formazioni socialiste italiane, artefici delle prime rivendicazioni politiche, economiche e sindacali in difesa dei lavoratori, riservarono un’attenzione adeguata alla subalternità delle donne, limitando le istanze di emancipazione al livello puramente economico.

Ada Negri

Voce rappresentativa in questo passaggio di secolo poco aperto alla questione femminile è quella della poetessa e narratrice Ada Negri (1870-1945), al suo esordio “vergine rossa” concentrata su temi sociali espressi in liriche populiste e filoproletarie, sul finire dell’Ottocento ripiegò su una lirica d’introspezione autobiografica che durante il primo conflitto mondiale si venò di patriottismo.  Motivi sentimentali e memorialistici comparvero nelle sue opere negli anni del regime fascista, che nel 1931 la insignì del Premio Mussolini e nel 1940 la nominò prima donna membro dell’Accademia d’Italia. Inizialmente la Negri nella raccolta poetica Fatalità (1892) si ritraeva come una donna emancipata e rivoluzionaria, ma nella sua produzione complessiva la linea progressista convive con la cosiddetta poesia “muliebre”, che nei versi di Maternità (1904) esalta il culto della madre rendendolo “inquietante”, “assoluto”, “rinunciatario”, “polarizzante”, come lo definisce Anna Nozzoli. Nella poesia della Negri la sacralizzazione della madre convive con la rappresentazione della donna appassionata e sensuale, che compare in altre sue opere in ruoli narcisisti, di stampo dannunziano, e in questa produzione decadente non c’è spazio per un ripensamento autentico sulla condizione femminile. La donna, passiva e debole, è assoggettata all’uomo forte e vitale. Il suo piacere è essere posseduta: 

“Quando tu mi stringevi, divino carnefice, / smorta e demente fra le tue tenaglie, / pregavo nel tremito. Uccidimi” (“Grido”). 

Nelle opere della maturità e nella produzione in prosa, si veda il romanzo Stella mattutina (1921), le figure femminili della Negri assumono infine connotati più vicini alla vita reale, appartengono al proletariato o alla piccola borghesia e nella raccolta di racconti Le solitarie (1917), la scrittrice analizza la repressione delle donne individuandone i responsabili nella fabbrica e nella famiglia. Pur riconoscendo al lavoro un’importanza centrale per la conquista dell’emancipazione, la sua voce, come negli scritti d’esordio, si leva nuovamente contro lo sfruttamento e contro l’autoritarismo della famiglia patriarcale. La Negri estende la denuncia femminista dalle proletarie alle borghesi condannate a una vita alienante e priva di scopi e allarga quindi il campo della sua indagine sulla questione femminile, ribadendo comunque che le aspirazioni di tutte le donne possono attuarsi nella maternità. La sua opera, pur se esprime il bisogno della liberazione delle donne, manca in definitiva di concrete e differenziate analisi di classe, rimanendo in bilico tra l’attaccamento alla tradizionale funzione riproduttrice e la denuncia consapevole delle disparità subite dal genere femminile.

Unica voce fuori dal coro era stata nei primi anni del XX secolo quella di Sibilla Aleramo (1875- 1960), autrice di Una donna (1906), formidabile autobiografia che riveste un’oggettiva importanza nella letteratura del femminismo italiano. Il libro, che ebbe un largo successo in Italia, fu apprezzato da Pirandello, Panzini, Ojetti, Bontempelli, Graf e tradotto all’estero, racconta la storia di liberazione della protagonista Lina, assegnandole un valore esemplare e utilizzando il racconto autobiografico come strumento di coscienza. Le tradizionali strutture narrative e linguistiche vengono demolite dal flusso memoriale che esorcizza la famiglia fallocratica e i più diffusi luoghi comuni della femminilità cari al romanzo sentimentale e agli epigoni del dannunzianesimo. Tutto l’universo maschile del romanzo, dall’amatissimo padre di Lina, che però annienta la moglie, al crudele marito padrone, viene rivisitato in chiave polemica dalla voce narrante, che schiera al loro fianco una parata di figure femminili ossessive e insignificanti, ingrigite dalla violenza e dalla sottomissione agli uomini. Tra queste, la madre svolge una funzione opposta a quella della protagonista, mostrando la sua inferiorità al marito e scivolando lentamente nell’annullamento della propria identità dopo la scoperta del suo tradimento. È proprio il confronto con il destino della madre a spingere Lina a ribellarsi al suo matrimonio sbagliato e ad abbandonare il tetto coniugale, pagando il prezzo della sua libertà con la rinuncia al figlio. Viene così rovesciata dalla Aleramo la “mistica della maternità”: 

“Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. E’ una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza del rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità? (Una donna)”.

È uno dei passi più importanti del romanzo, che prelude al distacco definitivo della protagonista dalla famiglia per conquistare la propria identità autonoma di persona, una conquista che può avvenire solo attraverso il rifiuto del matrimonio, esperienza di alienazione dove la sessualità è vissuta come violenza e come assoggettamento al desiderio del maschio e dove la maternità è intesa come annullamento e immolazione della donna. Il romanzo della Aleramo va annoverato tra i classici della letteratura italiana, sia per la novità delle problematiche affrontate sia per l’incisività dei quadri d’ambiente e di costume dell’epoca, nei quali la vicenda personale di Lina si apre ai grandi cambiamenti che si preparavano in Italia e in Europa ai primi del Novecento, alle lotte operaie e alle manifestazioni dei movimenti femministi che rivendicavano il diritto di voto e la parità dei diritti con l’uomo. Una nuova ventata di realtà novecentesca entra quindi nella letteratura italiana tramite la voce della Aleramo in Una donna, romanzo rivoluzionario, spesso penalizzato per la sua carica antitradizionalista e scarsamente presente nelle storie della letteratura italiana.

Sibilla Aleramo

La letteratura “femminista” italiana inaugurata da Sibilla Aleramo coinvolge, pur se alternamente come s’è detto, Ada Negri e poche altre scrittrici. 

Ofelia Mazzoni

Tra queste va ricordata Ofelia Mazzoni (1883-1935), che recitò ne La fiaccola sotto il moggio di d’Annunzio, ritirandosi presto dalle scene, e fu autrice del romanzo Palcoscenico (1914), un realistico resoconto della sua deludente esperienza della vita di teatro, e delle memorie Con la Duse. Ricordi e aneddoti (1927). In quest’ultima opera la Mazzoni esprime una solidale affinità con la “Divina” e riflette sulla condizione della donna e sull’esigenza di porre “a una stessa altezza” gli uomini e le donne nella società.  Richiami agli ideali dell’emancipazionismo compaiono anche in altre opere della Mazzoni, che si rivolge alle donne esortandole ad avere forza di volontà, a sottrarsi a facili e insidiose illusioni e a essere autonome.

*Lucilla Sergiacomo, docente