La storia orale come arte dell’ascolto
Quando pensiamo alla ricerca storica, ci vengono in mente archivi polverosi e documenti abbandonati, fonti create allo scopo di lasciare un ricordo, una testimonianza per i posteri, usi, leggi, corrispondenze, cronache. La storia, tuttavia, si scrive in tanti modi, con monumenti per ricordare un grande personaggio o un avvenimento importate, con tanti documenti involontari, come i graffiti su di un muro, reperti e oggetti di uso quotidiano. Vi sono poi, i racconti della tradizione, messaggi tramandati nel tempo sotto forma di narrazione, le memorie, i diari, le testimonianze orali che sono diventate un elemento di grande importanza nella metodologia storica con lo sviluppo della tecnologia audio visiva. Sperimentate soprattutto nelle ricerche antropologiche e sociologiche, hanno ormai superato pregiudizi e limiti, offrendo delle prospettive di grande interesse. Il processo che ne conduce alla formazione implica l’intervento di due soggetti: l’intervistato e l’intervistatore, dalla cui relazione reciproca e fiduciaria nasce l’“intervista”. Occorrono tempo ed empatia, le domande, secondo la sociologa Maria Immacolata Maciotti, devono essere “semplici e lineari sia quando l’intervistato è una persona colta, sia quando è un analfabeta”. Una tecnica e un’esperienza personale che s’imparano e si sperimentano sul campo, tanto che Alessandro Casellato parla di “arte dell’ascolto”. Il dibattito teorico sulle fonti orali si basa essenzialmente sulla loro legittimità e veridicità. Giovanni Contini le considera fondamentali, anche quando sono imperfette perché “sono fonti di memoria e “la memoria è un serbatoio in continuo divenire, un archivio in trasformazione, dove accanto agli scarti si determinano correzioni, rivisitazioni e riscritture”. Lo storico fiorentino, che fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana di Storia Orale, costituita nel 2006, ne ha spesso rimarcato il carattere soggettivo, quale elemento distintivo. Ogni intervista dipende dal “punto di vista” espresso dal testimone, dall’interpretazione personale del suo passato, nonché dalla “visione del mondo localmente condivisa”. D’altra parte proprio l’aspetto della dialogicità, dell’intersoggettività, differenzia le fonti orali dalle scritture del sé, da quelle personali e private, come le memorie, le autobiografie, scritte da letterati ma anche da semplici osservatori. Sono tutte fonti che ci portano all’io, ma in realtà, il profilo della soggettività connota in modi diversi la gran parte delle fonti utilizzate dagli storici, persino le statistiche, senza parlare dei documenti pubblici di ogni tempo e di ogni governo. Tutti trasmettono le finalità, le opinioni, il sistema di valori di chi li ha prodotti, ma è nella dimensione della referenzialità che risiede il perché dei fatti, la dimensione dell’esistenza umana cui interessa arrivare. La ricerca storica ormai, è divenuta un’indagine qualitativa, non vuole più conoscere solo gli accadimenti ma comprendere come le persone hanno vissuto i momenti storici importanti, che esperienza ne hanno avuto, che cosa hanno pensato, quali erano le speranze, le aspettative, le paure avevano. Le fonti orali cercano una verità emozionale che, soprattutto in ambito accademico, si tende ancora a considerare un nodo problematico relativo alla veridicità. Si tratta di una memoria personale o è rappresentativa di un campione ampio, di un gruppo sociale, di una comunità? Il testimone ha avuto un ruolo partecipativo oppure è stato solo un comprimario, ha subito la storia e le sue conseguenze? Quanto è attendibile la sua testimonianza? In verità, a parte l’accelerazione tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, nella riflessione sulle fonti orali da parte degli stessi storici che le usavano, è cambiata la prospettiva da cui si sono guardati quegli stessi aspetti di debolezza. Si è insomma cominciato a dar valore al vissuto della storia, al senso della memoria, si è puntato, rilette Bruno Bonomo, su una dimensione della ricerca storica che mira a comprendere “cosa ha voluto dire il passato per una persona, cosa vuol dire per il suo presente, e quindi provare a esplorare tutti i nessi piuttosto complessi che uniscono i tempi.” Sono cambiati approcci e interessi, si è concentrata l’attenzione sul tema della memoria e delle diverse memorie presenti, quelle istituzionali, pubbliche, sui monumenti, i musei, la toponomastica, tutte le varie forme attraverso cui le società ricordano il proprio passato. Archivi di sensazioni, d’immagini, di pensieri che permettono di essere informati di molte cose circa i modi di vita e le circostanze sociali, favorendo l’identificazione e la reazione, il confronto con i nostri giudizi. Le fonti orali come tutti i documenti soggettivi, non sono solo un trasferimento di ricordi, ma un atto di partecipazione umana, morale, politica, un notevole impegno culturale che esercita uno straordinario valore educativo e creativo riuscendo ad ottenere il fondamentale obiettivo di recuperare e tutelare la specificità dell’esperienza e la sua unicità senza renderla avulsa dal contesto storico. Paolo Sorcinelli, in un suo saggio, riepiloga il senso del rapporto contraddittorio tra i vari elementi che oggi compongono la ricerca storica: “Il ricordo è di chi ha vissuto l’evento, la memoria è sia di chi ha vissuto l’evento sia di chi l’ha sentito raccontare”; la storia è indagine e interpretazione del passato “di cui entrambi possono far parte. “In un certo senso – ha sostenuto Paolo Prodi – attraverso le memorie collettive e la storia, si esplica una funzione parallela a quella “che lo psicanalista esercita a proposito della coscienza individuale”. In entrambi i casi, lo scopo è di “fare emergere brandelli che rimangono nascosti e non emergono in superficie se non con un paziente lavoro di ricerca”. La raccolta delle fonti orali nella ricerca storica e l’arte dell’ascolto diventano, in tal senso, una pratica metodologica indispensabile, da affinare e da coltivare con spirito critico e buone pratiche, affinché prevalga la consapevolezza che tutti hanno bisogno del passato “in cui affondare le proprie radici”.
*Fiorella Franchini, giornalista, scrittrice