VerbumPress

120 anni fa nasceva Carlo Levi

Ricordo dell’autore di Cristo si è fermato a Eboli

Tante sono le iniziative per rendere omaggio e rinverdire la memoria presso il pubblico adulto e soprattutto quello dei più giovani del grande scrittore, pittore e antifascista torinese. Verbumpress lo vuole ricordare con un saggio dello scrittore Salvatore La Moglie

Centoventi anni fa, il 29 novembre del 1902, nasce a Torino Carlo Levi. Di agiata famiglia borghese di origine ebraica, durante la sua giovinezza, cioè durante il fascismo al potere, partecipa alla rivista dell’amico Piero Gobetti la Rivoluzione liberale e, in seguito, è molto vicino ai gruppi di Giustizia e libertà dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Questa formazione politica e culturale giovanile lo tempra facendone un uomo di grande coerenza e di grande umanità, nonché un sincero e fervido amante della libertà.

Lo stesso anno in cui si laurea in medicina fa anche la prima esposizione di quadri alla Biennale di Venezia. Il suo antifascismo lo porta a rifiutare la retorica servile dell’arte ufficiale e il conformismo di fatto del futurismo marinettiano, affidando alla pittura il valore di espressione della libertà, come lo porta anche a dare vita alle prime organizzazioni clandestine, ad essere tanto attivo nel gruppo di Giustizia e libertà da meritare più volte la galera e la condanna al confino in terra di Lucania tra il 1935 e il 1936.

L’esperienza del soggiorno coatto presso la primitiva e quasi mitica gente della Basilicata è fondamentale e certamente determinante nella vita dello scrittore. La sua grandezza e la sua fama sono infatti legate al celebre romanzo che da quell’esperienza poi nasce nel 1945: Cristo si è fermato a Eboli. Romanzo che, facendo riemergere e riproponendo (quasi 80 anni dopo I Malavoglia) la questione meridionale con tutto quello che implica, sarà destinato ad oscurare, e fino ai nostri giorni, la grandezza di Carlo Levi sia come poeta che come pittore. Del Carlo Levi poeta si possono leggere alcune poesie del periodo del confino nelle quali già si intravede il grande capolavoro e nelle quali si può notare il forte legame dell’artista con la terra lucana popolata da rassegnati cafoni (che anche Pasolini, come Levi, avrebbe certamente amato per la loro irripetibile autenticità). Una terra tanto arretrata e tanto dimenticata dallo Stato da far pensare che Cristo, cioè la luce della civiltà moderna, del progresso non sia mai penetrata in quella regione. Si tratta di poesie molto belle, ricche di sentimento e di realtà viva e palpitante allo stesso tempo, nelle quali realismo e lirismo, realtà e sentimento sono tutt’uno, si confondono in perfetta armonia. Vale la pena ricordarne e porre all’attenzione del lettore alcune di esse. Ecco la prima che è del luglio del 1935:

Così, ritrovato cielo,

fumo bianco di stelle,

via d’umane formiche

che un’ora sola fa belle,

monotono sole su biche,

paglia arida, capre, 

rassegnata povertà,

voi siete il luogo nuovo

che in modo antico i giorni consuma, 

tutta la vita è lontana

dietro i monti giallastri e la bruma,

nel vegetar quotidiano 

a lingua straniera il ciel s’apre

straniero, e la triste bontà.

La seconda, invece, è dell’agosto del’35:

Pazienza tu donna ben sai

che porti in capo il sacco di grano; 

rassegnazione ti è accanto

se ti affatichi al sole

o se discesa al piano

riposi ai bordi di malaria.

Speranza non c’è perché mai

questa tua vita non varia: 

sai che la sorte contraria 

è una con te, per arcano

destino, realtà necessaria 

che ti segue ovunque tu vai

col suo peso quotidiano

come una pena ereditaria:

inutile l’umido pianto

e vane le aeree parole:

lagnarti di quel ch’altri vuole

ti sembra impensabile e strano

perciò non m’offri compianto 

e credi ch’io sia tuo fratello.

La terza poesia è dedicata alla vita “senza tempo” di Aliano, un paesino lucano. Levi la scrisse nell’ottobre del’35:

Ozio alianese

Ozio, pesantissimo ozio alianese

che duri da mille anni

all’ombra dei tuoi santi e delle chiese 

ancorato ai malanni,

non conosci altri tempi che le attese

del niente, ed agli affanni

quotidiani rifiuti le sorprese

dello sperare, e mai non muti panni.

Bruciati i dolci inganni 

dal monotono vento calabrese,

son compagno ai tuoi danni

immobile borbonico paese.

  La quarta poesia che  voglio porre all’ attenzione del lettore è del febbraio del 1936:

Mistica della prosa

Mistica della prosa

senza sensi, arida

assimili ogni cosa 

al pantano sterile.

Cieli ignoti, terre amare

uguali d’ognintorno

fanno del tempo che appare

un solo immutevole giorno.

Non fronda d’ulivo né pianta

svaria l’oscura attesa 

antica: l’uccello che canta

cade come una sorpresa

nell’immensità ferma: 

vanga e sudore danno

a questa argilla inferma

come il passato, un altro anno.

Eternità vuota

senz’erba né voce di sposa 

è la straziante ruota

mistica della prosa.

Infine, l’ultima poesia, che è del luglio del’36 ed è davvero palpitante di una grande umanità e di un grande amore per una terra dove Cristo non si è fermato, dove Cristo non è arrivato:

M’avete fatto umano 

baci dolenti, terre nascoste

dove un dolore antico

era prima del mio arrivo.

Come un classico dio mendico

sono stato in mezzo al grano

povero e alle scomposte

colline del grigio ulivo; 

secoli di pene imposte

e di desiderio vano

sul biondo tuo viso amico

come in quei monti scoprivo

che un egoismo lontano

arse paterno e passivo 

spogliando d’erbe l’aprico

terreno e le tenere coste.

Alle offerte senza risposte 

so solo rispondere, e dico 

parole che apran l’arcano 

grembo del fonte vivo.

E potremmo continuare ancora perché ci sono, naturalmente, anche tante altre belle e struggenti poesie non legate al periodo del confino. La poesia di Levi è stata definita dal critico Plinio Perilli lirica pittorica, poesia dipinta. E certo non si sbagliava. E Pier Paolo Pasolini, in due suoi componimenti, esalta il Nostro come il maggiore dei  poeti, come dire?, dotati dell’arte del pennello: Noi tuoi fratelli minori, /piccoli soli o lucignoli/ cerchiamo di salvare le tue tele dal rogo… E ancora Pasolini, nel 1967, in omaggio a Levi, scrive: Ogni tua pennellata è/ una piccola bandiera di libertà

Come pittore, Carlo Levi, è allievo di Felice Castrati e partecipa alla costituzione, a Torino, del Gruppo dei sei. I suoi maestri sono gli impressionisti francesi ma anche i grandi del ’900 come, per esempio, Chagall e Soutine. La sua pittura, come la sua scrittura, è una “critica sociale”, che nasce da motivazioni, appunto, sociologiche, esistenziali e anche etniche e etnologiche che dirsi voglia.

Carlo Levi è stato anche uomo politico. Infatti, nel 1963, viene eletto al Senato come indipendente nelle liste del PCI.

Se Cristo si è fermato a Eboli rappresenta il suo successo editoriale e artistico, occorre, però, ricordare che ha scritto anche altre opere di grande valore che vanno riscoperte e valorizzate per come meritano: nel 1946 ha pubblicato in Italia (ma già in Francia nel 1939) il saggio filosofico Paura della Libertà; nel 1950 L’orologio, romanzo sui deludenti esiti del 1946, quando forte era la speranza-illusione di un rinnovamento e di un ricambio nella nostra classe dirigente politica, ormai rassegnata all’immobilismo e al gattopardismo; nel 1952 La serpe in seno (sulla rivista Belfagor), un saggio sul fascismo dopo il fascismo, su quel fascismo che non muore mai, eterno direbbe Umberto Eco, e di cui aver sempre paura in quanto pronto a riproporsi ingannevolmente sulla scena politica, approfittando magari della crisi economica; nel 1953 La doppia notte dei tigli; nel 1955 Le parole sono pietre; l’anno successivo Il futuro ha un cuore antico (col quale vinse il Premio Viareggio); nel 1964 Tutto il miele è finito e, infine, la raccolta di “poesie inedite” (1931-1972) pubblicata, circa trent’anni fa, con il titolo Bosco di Eva. Ci sono altre opere minori e tanti quadri e disegni che, in questi giorni, sono esposti al pubblico in vari luoghi, soprattutto in Piemonte e in Lucania.

Carlo Levi è morto il 4 gennaio del 1975, cioè quarant’anni fa, e ha voluto essere seppellito ad Aliano, nella sua Lucania.

È stato scritto che fino a tutti gli anni ’80 la critica ha avuto difficoltà a definire l’eclettico Carlo Levi: romanziere, pittore, sociologo, saggista, ma quasi mai come poeta. Solo Giacinto Spagnoletti, negli anni ’90, lo celebra anche come grande poeta. Se dovessimo inquadrarlo in una corrente letteraria, certamente il suo posto è tra quelli che già negli anni ’20 e ’30 del ‘900 venivano chiamati neorealisti per distinguerli dai realisti dell’800. Parliamo di Moravia, Pavese, Vittorini, Bernari, Pratolini, Silone, ecc. Carlo Levi è certamente da collocare (anche se non rigidamente) in quel Neorealismo che ha come suo grande padre il Verismo di Verga e che matura come nuova corrente letteraria, nonché cinematografica, dopo il crollo del fascismo, rimanendo in vita fino al 1955 quando la pubblicazione del Metello di Pratolini ne decreta la fine. Crediamo di non sbagliare  facendo questa affermazione, perché se il canone principale del Neorealismo è quello della ripresa quasi fotografica della realtà, del romanzo o del film come documento, allora il capolavoro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, ma anche le sue poesie e le sue opere pittoriche, devono considerarsi tali e non prive – allo stesso tempo – di quel lirismo e di quel sano sentimentalismo (inteso proprio come ricchezza di sentimenti veri) che non mancarono nelle opere di neorealisti come Pavese, Vittorini, Pratolini, Calvino, Moravia, Pasolini, ecc. Fotografia della realtà e documento oggettivo non significano fredda ragione e negazione dei sentimenti: non fu così per i naturalisti-veristi della Seconda metà dell’Ottocento e non lo è stato neppure per i neorealisti del Novecento.

Sulla personalità complessa e sul versatile ingegno del nostro Autore ci sarebbe tanto da dire. Per esempio, sull’Avvenire del 20 agosto del 2015, Rocco Talucci, arcivescovo emerito di Brindisi-Ostuni, si era posto il problema della religiosità o meno di Carlo Levi. Ebbene, va detto che con molta onestà intellettuale, l’alto prelato scrive, nel suo articolo, che nel grande scrittore non c’era né Dio né la religione cristiana e, anzi, nessuna religione. Levi – che egli ha conosciuto di persona – era un puro, un uomo buono e probo che amava l’uomo e la libertà, come pure la verità e la giustizia. Che sono tutti valori e ideali del cristianesimo che, ammette implicitamente Talucci, sono vissuti da Levi in maniera certamente laica e, dunque, la sua potrebbe, al massimo, definirsi una religiosità laica. Del resto chi l’ha detto che un non credente, un ateo non possa avere una sua perfetta religiosità laica e vivere magari più cristianamente di un credente e ultraprofessante? L’ateo Foscolo, per il quale, dopo, c’era solo il nulla eterno, non si era creato la laicissima religione delle illusioni… Scriveva, dunque, mons. Talucci nel 2015 che: Carlo Levi insomma non è un uomo religioso, non si riconosce in nessuna religione. Vaga, per non dire inesistente, è l’idea di Dio. L’unica religione per lui è la libertà dell’uomo. (…) L’uomo e la libertà che sono, poi, i capisaldi del Cristianesimo.

Ha scritto Elena Loewenthal sulla Stampa del 9 febbraio del 2022 che: Carlo Levi è stato uno straordinario intellettuale anche se questa parola gli piaceva assai poco. È stato prima ancora un inguaribile appassionato di vita, curioso di tutto, sempre disposto a scoprire – nei colori, nelle parole, nei corpi. A centoventi anni dalla sua nascita…tornare a Carlo levi significa far propria una figura centrale del Novecento, capace di incarnare il secolo breve [vedi Eric Hobsbawm] e di leggerlo in tutta la sua complessità. E la libertà è davvero la sua cifra: libertà come ricerca, impulso di lotta, valore primario. Ma anche, e forse prima ancora, libertà di uscire sempre dagli schemi, come lui ha fatto per tutta la vita e, per questo, prosegue la Loewenthal, Carlo Levi va riscoperto non perché sia, come oggi spesso fa comodo, “attuale”. Anzi, il suo eclettismo mai snob ma sempre mosso da una curiosità fiduciosa (anche nei momenti più bui della storia) suona quasi marziano in questa presente che sembra sempre aver bisogno di incanalare tutto entro schemi rigidi

Certamente, l’antifascista Carlo Levi, che nel fascismo vedeva un pericolo costante sul quale sempre vigilare per impedirne una riedizione magari camuffata di odierno populismo e demagogismo da quattro soldi, è di estrema attualità non soltanto per questo ma anche per tant’altro. Filippo La Porta, pure sulla Stampa del 9 febbraio l’ha definito un illuminista che amava la civiltà contadina, forse perché (sono parole mie) si era reso conto già più di settant’anni fa che la civiltà borghese capitalistica e industriale non era certo migliore e non era l’alternativa ideale di un mondo in cui si vive meglio. Infatti, fa notare il noto critico letterario, che Levi ha addirittura anticipato Pasolini in certe sue profetiche analisi sulle nefaste conseguenze della civiltà capitalistica-industriale e, dice, che (sottinteso: come Pasolini) Levi sarebbe oggi vicino alle istanze e alle lotte dei no-global contro la globalizzazione selvaggia e disumana dei nostri tempi poco felici: Nel 1958, quindici anni prima del celebre “scritto corsaro” di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole, Carlo Levi scrive uno splendido articolo sulla scomparsa delle mosche – “ricordi dell’infanzia del mondo sterminate dal neocapitalismo e dal socialismo reale [quello di tipo sovietico], ruderi di tempi anteriori al diluvio…Nel mondo borghese senza mosche  i bambini, divenuti subito adulti, non distinguono più tra il gioco e una “realtà precoce, non assimilata”. La critica alle magnifiche sorti e progressive [vedi Leopardi] è sempre associata in Levi alla critica della politica. Non credo sia una forzatura accostare il suo pensiero alle posizioni più radicali del movimento no-global, soprattutto in relazione all’idea di “autonomia”, intesa come autogoverno e prossima a un impegno etico individuale (sempre l’individuo viene prima degli apparati). Politica, prosegue La Porta, intesa soprattutto come esercizio dell’autonomia, abitudine alla responsabilità, autoeducazione. E questo sentire (aggiungiamo noi) faceva parte della sua alta concezione etico-politica, gli proveniva anche dall’alta lezione del suo amico Piero Gobetti e dalla sua stessa visione poetica che aveva tra i suoi più alti valori e ideali l’Umanità, la Giustizia, l’Uguaglianza, la Rettitudine, la Verità e la Libertà, senza la quale l’uomo non è nulla.

Insomma, il discorso potrebbe continuare ma, per il momento, vorrei concludere questo mio, certamente incompleto, profilo di Levi con una sua bellissima definizione dell’arte, della concezione che egli ne aveva, che risale al 1939: L’arte è totalità, perché in lei nascono insieme il momento dell’indifferenziato è quello del particolare, l’abisso vi prende forma senza diminuirsi, la passione vi si esprime senza urlo, l’uomo vi è intero, senza legami, sufficiente a se stesso.